Non potevamo che festeggiare i 50 doppiatori ospiti nella nostra rubrica delle interviste con un maestro del mondo del leggio, ovvero Roberto Pedicini.
Doppiatore di Kevin spacey, Jim Carrey, Javier Bardam e Ralph Fiennes, Roberto Pedicini vince nel 1999 ai nastri d’argento il premio come miglior doppiatore per le sue interpretazioni per i film The Truman Show e Celebrity.
Considerato una delle voci più intense è tra i doppiatori più talentosi in attività.
Chi è Roberto Pedicini
Roberto Pedicini nasce a Benevento il 18 gennaio del 1962. Fin da giovane coltiva la passione per la musica.
Dopo una parentesi lavorativa in una televisione privata di Pescara, negli anni ’80 a iniziare stabilmente la carriera come doppiatore.
Cosa ha doppiato
Roberto Pedicini ha doppiato numerosissime pellicole cinematografiche oltre che ad essere la voce ufficiale di molti attori hollywoodiani. Lo ricordiamo nei panni di Tom Hulce in Amadeus, Kevin Spacey in American Beauty, I Soliti Sospetti, Jim Carrey in Number 23, Sonic il Film, The Truman Show, Woody Harrelson in The Big White, Javier Bardem in Non è un paese per vecchi, Vicky Cristina Barcelona, Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar e Ralph Fiennes in Quiz Show, Schindler’s List, Bernard & Doris – Complici amici.
Nelle serie animate è la voce di Gatto Silvestro, Pippo e Taz. Inoltre, ha prestato la voce a Hopper in A Bug’s Life – Megaminimondo, Timon ne Il re leone II – Il regno di Simba e Megamind in Megamind.
Per quanto concerne il mondo videoludico ha doppiato Jonathan Irons, interpretato da Kevin Spacey, in Call of Duty: Advanced Warfare, Leonida in Assassin’s Creed: Odyssey, John McClane in Die Hard Trilogy 2: Viva Las Vegas e Silvestro in Looney Tunes: Back in Action.
Intervista a Roberto Pedicini
- Come ti sei avvicinato al mondo del doppiaggio?
Modificherei questa domanda in: “come mi sono avvicinato al mondo della voce”, perché la voce la ho usata a 360° nella mia vita. Posso dirti di avere iniziato a utilizzarla, romanticamente, facendomi compagnia da figlio unico, in quanto a casa ero solo. Non avendo altri fratelli e sorelle con cui giocare, mi divertivo a dare la voce a personaggi immaginari.
Da piccolino mi ricordo che facevo delle interviste e imitavo le voci dei giornalisti famosi. Direi che lo sviluppo dell’orecchio nella mia vita è stato proprio immediato, cioè ascoltavo tanto e riproducevo suoni e canzoni poiché mi piaceva cantare.
In realtà volevo fare la rockstar, perché da ragazzino ero appassionato di musica. Ricordo che mio padre mi regalò la prima chitarra e quindi iniziai a suonare ad orecchio, perché non avevo tanta voglia di studiare. Ero un bambino abbastanza dinamico, non amavo stare a casa.
Il doppiaggio è arrivato quando lavoravo in una televisione privata di Pescara che si chiama TVQ. C’era il direttore di questa televisione, ovvero Elia Jezzi, che faceva delle interviste stile Maurizio Costanzo a personaggi del doppiaggio. Era un grandissimo appassionato del mondo del leggio.
Ricordo che andava a prendere i doppiatori a Roma e li portava a Pescara per poi fargli un’intervista negli studi. In pratica ho assistito a tutte queste interviste fatte da lui, erano bellissime.
Un giorno ne vidi una in particolare a Enrico Lazzareschi, che era un regista e direttore di doppiaggio forse non troppo noto. Parlò talmente bene e con passione del doppiaggio che io me ne innamorai immediatamente. Vidi pure l’intervista di due miei colleghi che lavorano ancora oggi, che sono una delle famiglie primordiali del doppiaggio, ovvero i Rossi e i Boccanera.
Quindi, vidi l’intervista di Massimo Rossi e di Laura Boccanera che doppiavano un cartone animato che io all’epoca da vedevo, ossia Candy Candy. Laura Boccanera era la voce di Candy e lui del personaggio Terence. Vedendo questi ragazzi molto giovani mi invogliai a iniziare questa carriera. Iniziai piano piano andando a fare i provini per Roma. Non provengo da una tradizione teatrale o culturalmente legata al doppiaggio o al cinema.
Mio padre era un funzionario dello Stato, mentre mia madre lo aiutava a casa a fare dei lavoretti privatamente. Nella mia fantasia c’è sempre stato il desiderio di essere qualcos’altro. Ho sempre detto che dentro ognuno di noi si nasconde un Robert De Niro o una Meryl Streep.
- Nel corso della tua carriera, qual è il ricordo più intenso legato al mondo del doppiaggio?
Ce ne sono davvero tanti. Sono uno che tende a vivere sul campo le cose con grande passione, immergendomi totalmente. Ogni lavoro che ho fatto non l’ho mai giudicato, credo che il male peggiore che abbiamo un po’ noi italiani è quello di giudicare. Non a caso siamo uno dei pochissimi paesi che ha ancora il Grande Fratello, perché siamo un paese di pettegoli e di invidiosi. Dico questo perché faccio un lavoro e me lo dimentico e nel momento in cui lo faccio mi metto totalmente al servizio del personaggio.
Ricordo con piacere la conoscenza del braccio destro di Spielberg, che mi scelse per fare interpretare Ralph Fiennes in Schinder’s List. Poi la prima scelta di quando vinsi il provino per Amadeus, che fu il primo film grosso che mi consacrò un ingresso dalla porta principale nel mondo del doppiaggio. La prima versione, anche perché poi è stato ridoppiato quando è arrivato l’avvento dei DVD. Non giudico, ovviamente, il ridoppiaggio che avvenne dopo tanti anni.
Il doppiaggio originale realizzato da Fede Arnaud, che ha creduto fortemente in me, aveva delle qualità particolari. Lei era molto appassionata di tecnica, quindi per me che ero inesperto è stata davvero una scuola incredibile. Non fu il primo film che feci con lei, perché prima ancora doppiai un Mickey Rourke sconosciuto in Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola.
- Sappiamo che hai doppiato Kevin Spacey in Call of Duty, cosa puoi raccontarci del doppiaggio di questo titolo?
Quando facciamo i videogiochi tendenzialmente non sono quasi mai doppiaggi, perché c’è un copyright segreto sulle immagini e tante volte non lo fanno vedere. Arrivano delle linee dove c’è il pezzo originale che dobbiamo doppiare e dove fondamentalmente dobbiamo starci dentro con il timing. È un doppiaggio molto più tecnico che interpretativo. Devo dirti che nel doppiaggio dei videogiochi c’è poca arte della recitazione. In questo caso sono stato chiamato perché ho doppiato Kevin Spacey.
Un videogioco ha molto poco di artistico, nonostante dietro ci sia una macchina incredibile. Non ricordo se parlai con un responsabile della Sony dove mi disse che la produzione costava qualcosa come 300 milioni di dollari. Sono progetti su cui ci lavorano per anni dove sono convolte tantissime persone.
Non credevo ci fosse dietro questo meccanismo così grande e costoso. Una volta pubblicato, ho visto delle scene. Vedere i capelli, i dettagli degli occhi e dei movimenti è pazzesco. Non sono mai stato un appassionato di videogiochi, non soltanto da un punto di vista generazionale anche perché esistono da parecchi anni, forse a causa del retaggio del figlio unico. Stare seduto a casa davanti al computer non mi piaceva particolarmente.
- Qual è stato il personaggio più difficile da doppiare, e a quale sei più affezionato?
Se svolgi con passione il tuo lavoro, probabilmente ti sembrerà tutto più facile. Parto sempre dall’idea che ho la fortuna di fare un lavoro che non solo mi ha fatto guadagnare dei soldi negli anni, ma che io amo totalmente. C’è stata una parte della mia vita, dalla giovinezza fino a più o meno a 50 anni, dove lavoravo dieci ore al giorno. Se fai nella vita quello che ami, non ti pesa mai. Fatta questa premessa, tecnicamente l’attore più difficile da doppiare è Jim Carrey. Tengo a sottolineare dal punto di vista tecnico perché richiede tanta energia. Per me è stata un’eredità presa da Tonino Accolla che era bravissimo su Jim Carrey.
Io credo di avergli dato un’energia che Tonino Accolla non metteva. Tonino Accolla vocalmente era più giusto di me, soprattutto sulla faccia di un Jim Carrey giovane, ma l’energia che ho preso di Jim Carrey nella sua articolazione, nei suoi nervi e nelle sue gestualità, alla lunga mi ha reso vincente. Credo di avere la capacità di annullarmi totalmente e di entrare in quel corpo e in quella faccia. Pierfrancesco Favino in un’intervista disse una cosa che io credo di aver fatto totalmente mia durante la mia carriera, ovvero: “io amo il mio mestiere perché mi permette di dimenticarmi di me”.
Un doppiatore ha il dovere di farlo, cioè la capacità di mettersi al servizio di quel corpo e di annullarsi. Il più grande complimento che puoi farmi e che dovrebbero poter fare ad un doppiatore è: “non ti avevo riconosciuto”. Se tu non ti sovrapponi a quell’attore, ma sembra che parli lui, vuol dire che hai fatto un ottimo lavoro.
Se invece senti cose scollate perché la voce non è giusta su quella faccia o l’interpretazione non è convincente su quelle espressioni, vuol dire che siamo difronte a un cattivo doppiaggio. A quel punto sarebbe meglio vedere i sottotitoli.
Javier Bardem, per esempio, crea un personaggio diverso in ogni sua interpretazione, probabilmente è anche l’attore che amo di più a livello interpretativo. Amo il suo modo di mettersi a servizio del personaggio che andrà a fare. Bardem è estremamente poliedrico: può essere cattivo, buono, inquietante, brutto, bello e affascinante. Sembra quasi fatto di gomma, è un attore eccezionale.
Doppiare quei ruoli vuol dire realmente mettersi al servizio di un attore. Se non fai come loro, c’è il rischio di essere sé stessi. Alla fine, il doppiaggio diventa davvero un tradimento dell’opera. A quel punto ha ragione Gabriele Muccino.
Il doppiaggio è un lavoro immediato, noi non studiamo prima di farlo. Molto spesso non sappiamo neanche chi dobbiamo doppiare a parte per particolari produzioni. Se non sei tu che vai a cercare il film che andrai a doppiare, capita di arrivare davvero impreparato. Se non entri in quel meccanismo attoriale, fai davvero fatica. Non si può fare questo mestiere solo per popolarità o per danaro, bisogna dare sempre il massimo. Se noi italiani amassimo il lavoro che facciamo, sarebbe un posto ancora più bello di quello che è già.
- Che consiglio daresti a nuovi e aspiranti doppiatori?
Sicuramente fare quello che io non ho fatto, ovvero una scuola di recitazione. Mi preparerei come attore, noi dobbiamo avere una dimestichezza di come utilizzare le nostre emozioni, quasi come fossi un prestigiatore. Devi imparare a maneggiare sentimenti e per fare tutto questo devi assimilare un processo di estraneazione. Puoi farlo, ma imparando delle tecniche. Con i tempi che ci sono oggi, dove le lavorazioni sono fatte di corsa e non vi è più il tempo di insegnare sul campo, è davvero complicato.
Io ho avuto la fortuna di imparare sul campo con la direttrice del doppiaggio Fede Arnaud. Questo perché i tempi di produzione erano molto lenti. Il doppiaggio è la specializzazione del lavoro dell’attore, non può nascere come una professione di per sé. Quelli della mia generazione, me compreso, non hanno calcato le scene del teatro. Sono entrati in un momento storico in cui il doppiaggio aveva proprio bisogno di rinnovare tutta la fascia giovanile che non c’era. Quindi è stato molto semplice inserirsi anche se non si era tanto capace, abbiamo imparato sul campo.
Grazie per l’intervista, un saluto a tutti gli utenti di Videogiochitalia.it
Classe 93, dall'animo nerd, da sempre appassionato del mondo videoludico. Alcune leggende sostengono sia nato con un controller in mano. Negli anni scopre di avere una particolare predisposizione per le interviste. Odia più di ogni altra cosa la console war.