Casual Gamer VS Pro Gamer: La battaglia eterna riflesso di una società mutevole…

Informazioni sul gioco

Secondo l’industria dei videogiochi esistono tre categorie principali di giocatori: Gli hardcore gamer, i mid-core gamer e i casual gamer. Queste etichette sono ovviamente figlie del contesto puramente commerciale e non hanno nessun fine discriminatorio. Chi produce videogiochi o console deve considerare sempre il target a cui rivolgere il suo prodotto, per poi svilupparlo di conseguenza.

Sono i videogiocatori ad etichettare compagni o conoscenti, adoperando terminologie come appunto “casual gamer”, al fine di criticare il comportamento, magari effettivamente più superficiale, di una vasta massa di utenti. Parole che nativamente non avevano uno scopo offensivo sono state strumentalizzate da una nicchia di individui per ergersi al di sopra degli altri, lungo un processo storico e sociale che ne ha visto una progressiva diffusione.

Nell’uso comune però le etichette più adoperate sono soltanto due: Casual gamer e Pro gamer, poste concettualmente come antipodi, ma si tratta di una estrema semplificazione rispetto alla complessità dei target, nonché di una scelta discutibile in linea generica.

Pro gamer di fatto non rappresenta un’etichetta o uno stereotipo, bensì un ruolo, o addirittura un mestiere, in quanto “Pro” deriva da professionista e si usa legittimamente solo nel contesto competitivo, dove il pro gamer gioca per vincere premi in denaro e costruirsi una carriera nel settore degli e-sports. In pratica ne fa professione.

Questo non vuol dire che non la si possa usare goliardicamente con un fine legittimo, magari sugli informali social network, ma escluse le rare eccezioni, questa dicitura è diventata ormai una vera e propria etichetta che trova la sua discriminante nell’abilità dell’individuo.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Perché se è vero che fin da sempre si vada a generalizzare in stereotipi basati sui comportamenti comuni di una ristretta cerchi di utenti, è altrettanto evidente che con il ricambio generazionale l’accezione di quegli stessi stereotipi sia cambiata, adottando come unica variabile l’abilità dei singoli giocatori. Ma come mai proprio l’abilità? Una domanda apparentemente semplice, che prevede però una risposta complessa.

Dalle Stalle… alle Stelle…

La progressiva diffusione di internet direttamente proporzionale all’esplosione dell’elettronica di consumo, confluite poi nell’ascesa dei social network, hanno tramutato la sub-cultura nerd, legata in buona parte anche se indirettamente al settore informatico e tutto quello che contiene al suo interno, in cultura popolare e di conseguenza la necessità umana di omologazione ha spinto tutti i fruitori di internet ad adottare determinati comportamenti e determinate terminologie, che improvvisamente da dispregiative sono diventate motivo di egocentrico vanto, vedi per esempio il termine “nerd”.

Il videogioco rientra in questa nuova cultura popolare. Quindi anche chi prima si limitava a fare “una partita alla Play di sfuggita, oggi, coinvolto in questa società interconnessa che nullifica le distanze comunicative, ha adottato l’etichetta di “Gamer” e cerca di ostentare questa sua natura omologandosi a quei comportamenti comuni che nell’immaginario collettivo legittimano la sua passione agli occhi degli altri.

In questo contesto, dove è necessario dimostrare qualcosa agli altri, l’abilità pad alla mano diventa un elemento tangibile, che tutti possono constatare per mezzo magari del trofeo di platino di Dark Souls o della schermata condivisa su Twitter con la prima posizione nel deathmatch di un FPS a caso.

Gli individui racchiusi in questa estrema generalizzazione sono quelli che si definiscono oggi appassionati, e sono molto numerosi, ma rappresentano poi una minoranza rispetto alla grande massa di utenti che semplicemente “fruisce del videogioco”, una grande massa che viene rappresentata (teoricamente) dal loro opposto, i Casual gamers: il nonno che gioca a Wii Sports con il nipote, la casalinga che cerca di dimagrire su Wii-Fit, il pendolare che aspetta il treno giocando a Ruzzle, la ragazza alla moda che si annoia e si fa una partita a Candy Crush, l’appassionato di calcio che compra una console e poi gioca solo a Fifa, ecc ecc.

Questi utenti sono visti nell’immaginario collettivo come i casual gamers ma non è stato sempre così e definirli tali non è del tutto corretto.

Stando a questa accezione è come se i casual gamers si siano palesati a partire dall’esplosione del Nintendo Wii e degli smartphone, ma si parlava di “giocatori casuali” da ben prima che Nintendo partorisse i sensori di movimento per home console.

C’è quindi una falla logico-temporale constatabile in questo ragionamento, ma come si è generata?

Il giocatore di ieri contro il giocatore di oggi…

Le nuove accezioni sono figlie di un ricambio generazionale in cui le nuove generazioni hanno sviluppato un loro immaginario collettivo che non ha preso in considerazione il retaggio delle generazioni precedenti, perché legato a un contesto storico completamente diverso.

Fino a non troppi anni fa chi videogiocava non doveva legittimare una forma di passione obbligatoria per sentirsi accettato socialmente, anzi, gli conveniva addirittura nasconderla onde evitare discriminazioni.

E vista l’enorme differenza tra i due contesti descritti, è naturale e scontato che gli appassionati che ne sono rispettivamente usciti presentino differenze comportamentali evidenti e constatabili, e in quel vecchio contesto, così diverso da quello attuale, l’unica vera distinzione che si faceva era “la passione”. C’era l’appassionato di videogiochi e c’era il non appassionato di videogiochi e tutto ciò trascendeva l’abilità pad alla mano.

Passione però è un termine molto astratto e ognuno di noi potrebbe interpretare questa terminologia a piacimento. Ergo è indispensabile riassumere ed elencare quelli che, secondo i videogiocatori più anziani, erano e sono i sintomi più evidenti della passione verso i videogiochi.

Passione… una parola, un concetto…

La passione nasce teoricamente da un interesse sincero verso l’oggetto del desiderio, nel nostro caso i videogiochi. L’interesse sincero spinge l’utente a cercare informazioni per accrescere la sua personale conoscenza di quell’oggetto. L’accumulo di informazioni porta alla costruzione di un bagaglio culturale e alla maturazione di una consapevolezza, in primis delle proprie preferenze e delle proprie esigenze e in contemporanea del medium stesso, nonché degli elementi che lo contraddistinguono.

Un tempo quindi si soppesava la legittimità della passione in base alla competenza e alla cultura in ambito videoludico, discriminante che generò una sorta di elitarismo non poi così diverso da quello di oggi, solo costruito su diversi principi.

All’alba delle prime community non era raro imbattersi in discussioni portate avanti da utenti arrabbiati e pronti a vomitare bile contro i giocatori più superficiali, all’epoca contraddistinti da una visione del medium circoscritta ai soli dispositivi Sony, nella fattispecie Playstation e Playstation 2, e a determinati prodotti, quelli più mainstream, come GTA, Gran Turismo, Crash Bandicoot e altri titoli che hanno segnato la crescita della quasi totalità degli utenti, uniti in una omologazione mai digerita dai più anziani, in quanto frutto dell’adozione di un interesse collettivo e non personale. Una sentenza altrettanto discriminatoria ma all’atto pratico, forse, concettualmente rispettabile.

Perché si poteva e si può essere appassionati di videogiochi senza necessariamente cercarvi una sfida costante. Il medium videoludico si è evoluto in una vera e propria forma espressiva che può contenere non solo semplice intrattenimento o fredda competizione contro terzi o contro se stessi, può contenere messaggi, può emozionare, può coinvolgere al pari di tutti gli altri media.

È a partire da questo presupposto che la precedente classificazione in etichette poggiava su basi ben più solide di quelle attuali e rifletteva una società in cui il videogioco ancora faticava ad emergere. Un contesto in cui essere appassionati di videogiochi era una scelta, non una ovvia conseguenza.

Dalla nicchia… alla moda…

Quando il videogioco è stato sdoganato per la prima volta (molti appassionati vedono in Playstation il punto di rottura), essere appassionati è diventato progressivamente sempre più facile e allo stesso tempo, purtroppo, per quanto assurdo possa sembrare, sempre più difficile.

Il contesto in cui il videogioco era erroneamente sinonimo di solitudine e inadeguatezza spingeva l’individuo a una ricerca personale, intima, tutta sua, che nasceva da un suo personale interesse. Un interesse che andava coltivato a fatica, in quanto posto in contrapposizione a una società che non accettava di buon grado un medium così giovane e incompreso, senza contare la difficoltà nell’informarsi per mezzo di riviste che potevano costare l’intera paghetta, quando oggi c’è addirittura una ridondanza informativa che ti piove addosso senza nemmeno cercarla.

In un contesto dove invece il videogioco viene visto come un elemento imprescindibile per essere accettati socialmente, è ovvio e scontato che tutti vogliano automaticamente essere visti come videogiocatori, perché omologarsi è una caratteristica umana. La volontà di sentirsi accettati socialmente che ci spinge ad adottare i comportamenti più diffusi.

Di conseguenza però la ricerca dell’omologazione nullifica per forza di cose la ricerca dell’individualità e quando a spingere un utente non è più un interesse spontaneo ma la necessità di adottare un interesse collettivo, è facile che questo finisca con l’adottare anche un’identità collettiva, sacrificando la sua identità personale.

Scontro generazionale e barriere di ingresso…

Nei paragrafi soprastanti è riassunta l’evoluzione del videogioco a livello sociale con il suo conseguente impatto in termini di classificazioni e stereotipi. Come abbiamo detto in apertura, le etichette non hanno nativamente un fine discriminatorio, sono semplicemente una generalizzazione che si può interpretare in quanto target primari dell’industria stessa.

Quel che però scoperchiano lato utenza è una lotta generazionale perpetua, lo scontro tra diversi immaginari collettivi in costante mutamento.

Chi è cresciuto in quel contesto dove l’unica distinzione plausibile la si faceva in base ai sintomi evidenti della passione non riesce ad accettare le nuove accezioni. Per lui l’appassionato non sarà mai quello bravo a giocare, sarà sempre e semplicemente l’appassionato, ovvero quell’individuo che nutre un interesse personale e sincero verso un qualunque medium e che allo stato attuale, a causa del moderno contesto sociale che abbiamo descritto poco sopra, rappresenta una nicchia quasi insignificante.

La situazione si complica quando bisogna cercare uno stereotipo per il Casual gamer, un’etichetta forse ormai anacronistica a causa dell’abbattimento di ogni barriera di ingresso nel medium.

Partendo dal presupposto che i Casual gamers sono sempre esistiti, da ben prima dell’avvento dei sensori di movimento, è chiaro che l’utenza che ha portato alla ribalta Nintendo Wii e a seguire tablet e smartphone in quanto dispositivi da gioco, si è affacciata sul mercato solo di recente e di conseguenza viene caratterizzata da comportamenti inediti, forse anche più superficiali e distanti dal gaming per come lo intendiamo noi appassionati.

Una plausibile dicitura atta a generalizzare questa massa di individui potrebbe essere “Non Gamer. Una terminologia basata per l’appunto sul loro approccio al medium. La casalinga con Wii Fit non gioca per la volontà di videogiocare, il suo obiettivo è quello di fare ginnastica in casa. La ragazza alla moda che gioca a Candy Crush non lo fa con l’idea di videogiocare, magari si annoia e sa che con il suo smartphone può ammazzare il tempo. Il fatto che quello sia un videogioco non lo prende nemmeno in considerazione e lo dimostra nel momento in cui magari se la prende con un appassionato accusandolo di passare troppe ore davanti alla sua console.

Questa è l’utenza che è esplosa di recente per via della semplificazione e l’accessibilità di dispositivi come Nintendo Wii e Smartphone. Perché oltre alle barriere sociali che PlayStation ha iniziato ad abbattere già nel 1998, esistevano anche delle barriere più pratiche, come il controller che per molti è ancora oggi un aggeggio arcaico e indecifrabile rispetto all’accessibilità di un touchscreen o del Wiimote.

Il casual gamer invece è semplicemente quell’individuo che sì, gioca con il fine di videogiocare, ma che affronta il videogioco con estrema superficialità, seguendo magari il flusso delle varie tendenze, e che compie delle scelte commerciali non tanto in base al suo interesse personale verso il medium ma in base all’influenza di tutti gli elementi sociali che lo circondano.

Oggi dunque è arduo inquadrarlo perché, come dicevo prima, essendo il videogioco stesso una moda che tutti vogliono seguire ed essendo così facile e alla portata di chiunque finire nelle community dedicate (vedi la diffusione dei gruppi Facebook), è difficile scindere chi sta maturando una sua personalità legata alla sua consapevolezza da chi invece sta procedendo in linea retta adottando l’identità collettiva.

La via giusta e quella sbagliata…

Il guazzabuglio moderno che rende difficile scindere l’appassionato dal semplice fruitore ci porta a una distinzione ben più generica tra maggioranza silenziosa, minoranza rumorosa e nicchia, una distinzione che cerca di arginare le difficoltà attuali quando si cerca di identificare certi target.

Nella maggioranza silenziosa rientrano i Non-gamers, tipo la ragazza con Candy crush, e i Casual gamers puri, tipo il giocatore con la console più diffusa e sulla quale gioca sempre e soltanto a Fifa, Gta o Fortnite, un’utenza quasi invisibile, che non si mescola con i videogiocatori sulle varie community ma che poi, quando si tratta di numeri e classifiche di vendita, diventa preponderante. Nella minoranza rumorosa rientrano invece il secondo tipo di Casual gamer, quelli che si definiscono appassionati ma che in realtà si vanno a omologare principalmente per necessità sociali.

Sono quelli che “si fanno sentire“, che, allo stato attuale, superando di gran lunga come numero e diffusione la nicchia degli appassionati, si uniscono generando sul web l’immaginario collettivo videoludico, dal quale possiamo estrapolare concetti discutibili come le discriminazioni in base all’abilità di cui abbiamo fatto cenno in apertura, o tanti luoghi comuni che assumono i connotati di spicciola demagogia e frasi fatte del tipo: “non ci sono più i giochi di una volta“, “i DLC sono il male“, “la grafica non conta niente“, ecc ecc.

Questi sono la minoranza rumorosa di oggi. Ma essendo le tendenze sociali mutevoli ed essendo utenti che hanno adottato un pensiero collettivo invece che maturarne uno personale, domani potrebbe essere tutto diverso e questi cambiamenti costanti impattano sull’industria dei videogiochi che in quanto tale deve cavalcarli per espandersi.

Per questo l’etichetta, discriminatoria solo all’apparenza, in realtà è tale solo quando la usano gli utenti tra di loro, per sentirsi gli uni migliori degli altri, ma trova una reale utilità quando diventa target, un elemento da studiare e comprendere per chi i videogiochi li crea o anche per chi vuole affrontare il medium come elemento culturale.

Comprendere i target, comprendere quali siano più numerosi e quali meno, aiuta a comprendere l’evoluzione del videogioco stesso, che in quanto prodotto di mass market, oltre che forma espressiva, risente della domanda a cui corrisponde l’offerta.

Un concetto apparentemente banale che viene però assimilato a fatica dai videogiocatori, incapaci forse di comprendere che non esiste un solo ed unico modo per approcciare il videogioco in quanto medium. Non esiste una metodo giusto e uno sbagliato. Di fatto a chiunque piace giocare, il gioco è uno svago salutare, ma non tutti devono per forza interpretarlo nello stesso identico modo e soprattutto è naturale che siano poi in pochissimi a vederci qualcosa di più di un semplice intrattenimento.

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