SHENMUE III, LA RECENSIONE

Informazioni sul gioco

Recensire Shenmue III adottando la struttura classica degli articoli d’analisi è un’operazione a tratti frustrante, perché non stiamo parlando di un prodotto conforme agli standard e di conseguenza anche un testo canonico risulterebbe forzato nella sua esposizione. È innanzitutto imprescindibile presentare l’opera a chi ne viene a conoscenza soltanto oggi, ma trattandosi di un sequel, nello specifico del terzo capitolo, una approfondita descrizione risulterebbe ridondante ai fini del consiglio per gli acquisti.

Sta all’utente dunque ritagliarsi il giusto tempo per raccogliere più informazioni possibili sul retaggio di quest’iconica produzione e può iniziare il suo viaggio culturale a partire da un articolo redatto proprio qui, sulle pagine di VideoGiochItalia. Lo step successivo è quello di comprendere il concetto di “videogioco d’autore”. I videogiochi sono sì prodotti di intrattenimento, sono sì prodotti di mass market, sono sì produzioni corali, ma non mancano quelle sfumature autoriali presenti anche in tutti gli altri medium. A tal proposito, prima di procedere con la lettura, è consigliabile visionare il video integrato a fondo paragrafo. Una veloce disamina sull’importanza dell’autore come apice di una gerarchia produttiva e la conseguente unicità della sua “firma”, che può delineare una formula atipica e difficilmente classificabile.

In ultimo, ma non per importanza, bisogna conoscere anche alcune regole di mercato nonché commerciali, come l’enorme differenza che intercorre tra produzioni multimilionarie e produzioni low budget. Uno spaccato monetario che non è mai stato così evidente quanto nella nostra modernità, dove i vincoli tecnologici sono ormai da tempo secondari ai vincoli commerciali, dove i blockbuster mainstream, così detti tripla A, rappresentano una percentuale secondaria nella totalità del mercato, ma preponderante al punto da mettere in ombra tutto un sottobosco di produzioni sviluppate con poche risorse.

Comprendere i concetti espressi poco sopra è indispensabile ai fini della valutazione di Shenmue III, in quanto frutto di un iter di sviluppo più unico che raro nel panorama attuale. Il terzo capitolo di questa storica saga è di fatto un prodotto d’autore, figlio della sensibilità di Yu Suzuki che sfocia in una specifica esperienza, e allo stesso tempo, nonostante l’ambizione a monte, è stato sviluppato per mezzo di una raccolta fondi sostenuta dai fan del franchise.

Quest’ultimo particolare scoperchia anche il target di riferimento. Un gioco che prende le distanze dalle preferenze di massa e che si pone come unica priorità la soddisfazione degli appassionati che ne hanno reso possibile lo sviluppo.

Come valutare dunque un titolo così singolare sia dal punto di vista prettamente ludico, sia dal punto di vista commerciale?

L’unica possibile soluzione consiste nell’abbandonare gli stilemi classici di una recensione. Partire dal presupposto che l’interessato in cerca di un giudizio abbia maturato da sé le giuste conoscenze in relazione a quanto espresso poco sopra, per poi rispondere nello specifico ai dubbi più diffusi tra l’utenza.

Shenmue III è un gioco vecchio?

Cosa vuol dire “vecchio”? Un gioco come Child of Light, ancorato alle due dimensioni e sostenuto da meccaniche canoniche in chiave platform, si può, per questo, definire tale? Riprende chiaramente una formula che spopolava quando il rendering poligonale era ancora un traguardo distante, eppure nessuno oserebbe denigrarlo con un simile appellativo. Curioso osservare poi come l’ultimo capitolo di Dragon Quest abbia rispolverato i combatti a turni (pur lasciando ai giocatori libertà di scelta). Una meccanica ritenuta ormai vetusta che ha però riscosso l’approvazione della critica e degli appassionati, con svariati utenti che l’hanno preferita all’alternativa più action.

Allora perché Shenmue III dovrebbe essere vecchio? Perché riprende la formula dei capitoli che lo hanno preceduto? Conseguenza prevedibile, è un seguito diretto. O magari perché non propone una regia al pari dei migliori prodotti narrativi moderni? In tal caso è lecito chiedersi se sia corretto porre sullo stesso piano i tripla A di punta con un titolo sviluppato “elemosinando” i finanziamenti, perché nel momento in cui il confronto si bilancia verso produzioni più parsimoniose, come il coetaneo Greedfall, Shenmue III si rivela in linea con gli standard attuali, pur trascinandosi appresso scelte registiche discutibili, come la sfumata in nero che va a cadenzare i botta e risposta durante i dialoghi. Ma anche ammettendo si tratti di una soluzione criticabile, è tale non certo in relazione allo scorrere del tempo.

Ciò che forse rende vecchio Shenmue III agli occhi di giocatori e critica è la costante dicotomia tra ambizioni e risorse limitate. Un titolo che si fa fatica ad incastrare concettualmente tra le produzioni low budget, perché il primo impatto con il mondo di gioco, nonché con la struttura ludica a tutto tondo, trasmette la sensazione di trovarsi dinanzi a un prodotto tripla A dei primi anni 2000, magari l’ipotetico Shenmue III che sarebbe nato proprio in quel periodo se la saga non si fosse rivelata un flop commerciale. Ma dopo svariate ore, pad alla mano, l’appellativo “vecchio” inizia a calzare stretto perché è vero che Yu Suzuki abbia ripescato quella precisa formula che ha reso iconici i capitoli precedenti diciotto anni fa, ma quando riesumiamo il capolavoro Sega, il riferimento è a una struttura d’avanguardia per l’epoca, sperimentale sì, ma così in anticipo sui tempi da conservare alcuni elementi attuali ancora oggi.

La possibilità di interagire con (quasi) ogni personaggio non giocante, ognuno per altro caratterizzato al punto da essere sempre ben riconoscibile, non si è ripresentata negli open world a seguire (tutti inclini a ripetere un tot di modelli preconfezionati), sino appunto ai giorni nostri, quando l’evoluzione tecnologica ha permesso una maturazione del genere di riferimento. Altre caratteristiche, come i ritmi lenti quasi contemplativi, sono state addirittura rivalutate solo di recente con produzioni osannate dalla critica, come Red Dead Redemption 2 o il già citato Death Stranding, e la stessa sorte è toccata alla mancanza di indicatori visibili, che dopo anni passati a pilotare il giocatore nel posto giusto al momento giusto, sono stati in parte affiancati da modalità alternative prive di punti di riferimento (vedi gli ultimi Assassin’s Creed), al fine di spingere il giocatore verso il gusto della scoperta.

Ciò nonostante è dal punto di vista puramente meccanico che la produzione doveva scrollarsi di dosso la ruggine degli anni novanta, e così in parte è stato. Shenmue III abbraccia alcuni standard moderni, come la gestione di movimento e visuale agganciati alle due leve del controller, dinamizza i combattimenti corpo a corpo, rendendoli più accessibili e al contempo più articolati, arricchisce l’esperienza di contenuto, aumentando il numero di attività e mini giochi rispetto al già corposo Shenmue II, e infine implementa una novità assoluta per la serie, nonché una rarità in linea generica, ovvero la necessità di mangiare o riposare per ripristinare una barra della salute in costante esaurimento. Un particolare, quest’ultimo, tremendamente invasivo anche alla difficoltà più bassa, che obbliga al nutrimento per poter affrontare alcune sfide o anche solo per poter correre, e che di conseguenza potrebbe far storcere il naso a chi detesta simili impedimenti. Al contempo è un chiaro sintomo della visione autoriale di Yu Suzuki, non stona affatto nel contesto, ed anzi rappresenta un rafforzamento dell’esperienza prefissata. 

Ad aggrapparsi al passato sono soltanto la regia (come già detto) e una sorta di ridondanza meccanica, che si esprime nella ripetuta pressione dello stesso tasto per portare a termine anche un’azione semplice, come aprire un cassetto o raccogliere un oggetto. Ma, per quanto apparentemente anacronistica, è pur sempre la simulazione di alcuni gesti funzionali in ottica di continuità, prerogativa di un terzo capitolo che vuole innanzitutto farsi apprezzare dai suoi sostenitori.

Anche dal punto di vista tecnico le lamentele andrebbero contestualizzate. L’industria dei prodotti low budget o indipendenti si distingue con produzioni che, non potendo abbracciare i virtuosismi tecnici dei giochi tripla A, ripiegano sulla direzione artistica e in tal senso Shenmue III è una assoluta meraviglia audio-visiva.

Prima ancora delle fatiscenti architetture orientali, dei personaggi non giocanti tutti diversi, dei tramonti mozzafiato, o delle verdi vallate piene di fiori, sono i suoni ambientali a colpire l’attenzione del giocatore. Dal cinguettio degli uccelli sugli alberi, sino al gorgoglio rilassante di un fiume che scorre, per arrivare poi al caos cittadino della seconda location, la cura riposta in ogni singolo elemento rasenta l’ossessione e contribuisce a immergere l’utente in quel mondo che come da tradizione non potrebbe essere più plausibile, nonostante scelte stilistiche quasi caricaturali.

I limiti tecnici vengono dunque mascherati dall’estetica complessiva, seppur sia chiaro che la natura low budget della produzione risulti evidente sin dai primi istanti per via delle altalenanti animazioni, tanto fluide durante le sequenze di combattimento, quanto rigide durante i semplici spostamenti, per via di alcune textures sottotono e di una espressività dei volti che richiama alla mente i tripla A del passato.

Shenmue III è un gioco noioso?

Come per il concetto di “vecchio”, anche il concetto di “noioso” andrebbe approfondito. L’uscita recente di Death Stranding ha spaccato a metà la critica proprio in ottica di divertimento, tra chi accusava il gioco di Kojima di annoiare il giocatore e chi invece ne elogiava il coraggio di trasformare in profondo gameplay le tanto odiate “missioni da fattorino”.

Lo stesso principio si potrebbe applicare a Shenmue, il quale, fin dal suo esordio, ha adottato una soluzione ludica che per premeditata volontà volta le spalle all’azione costante e convulsa alla quale siamo ormai abituati.

Il gioco, di fatto, si compone di due elementi portanti: l’investigazione e la “marzialità”, tradotti poi in esplorazione e combat system. Un titolo che non nasconde di ispirarsi ai tradizionali Hong Kong movie, con tanto di sequenze che sembrano uscire direttamente da cult al pari di “Drunken Master con Jackie Chan, ma che al contempo si ancora alla necessità di conoscere l’ambiente circostante comprensivo di tutti i suoi protagonisti. L’interazione e le meccaniche si sviluppano a partire da queste fondamenta, alternando lunghe sessioni di raccolta indizi, parlando con i vari personaggi secondari, ad altre in cui il giocatore dovrà allenarsi per migliorare le caratteristiche del protagonista, tra cui anche la resistenza e la barra vitale.

Già si intuisce la non canonicità della formula di gioco, seppur non priva di riempitivi tanto in voga negli open world moderni, tutti però legati alla progressione di gioco. Si possono raccogliere vari tipi di erbe da scambiare con nuovi manoscritti tecnici (vere e proprie tecniche marziali che andranno potenziate in fase di allenamento), si possono accumulare yuan (la valuta di gioco) tagliando legna o giocando d’azzardo, si possono affrontare gare di pesca noleggiando l’attrezzatura, o passare del tempo in sala giochi, si possono poi acquistare, vincere o vendere oggetti di vario tipo, tutto in funzione dello scorrere narrativo, il quale ci obbligherà ad arricchirci o migliorarci nel kung fu, solo per poter proseguire lungo la storia principale, alternata solo da rare secondarie che si ridurranno a fetch-quest auto conclusive.

A fronte di quanto espresso, andare a cercare criticità nella formula di per sé è concettualmente errato. Combattimento ed esplorazione sono preponderanti ai fini dell’obiettivo del gioco, e un’azione diluita lungo l’incedere è una diretta conseguenza di scelte volute, nonché delle caratteristiche intrinseche nell’esperienza che vuole offrire. Resta solo da vedere se poi funzionino all’interno del contesto.

Il combat system,come abbiamo detto, è stato snellito e reso molto più accessibile rispetto ai capitoli precedenti, e allo stesso tempo è stata introdotta una soluzione inedita per il potenziamento delle singole tecniche che all’apparenza potrebbe essere fraintesa e arruolata tra i difetti produttivi come “grinding”, quando in realtà il principio di “ripetizione per perfezione” è alla base di ogni disciplina marziale.

Se nei prequel vi era l’obbligo, in chiave di level up, di soffermarsi nel dojo per ripetere più volte le stesse combo così da padroneggiarle al meglio, anche in Shenmue III il giocatore dovrà dedicarsi anima e corpo al miglioramento delle sue abilità e delle statistiche dell’alter ego. Le interminabili sequenze nella posizione del cavaliere, o contro avversari casuali col sol fine di allenarsi, andranno quindi a monopolizzare tante delle nostre giornate virtuali, ma senza mai risultare tediose o ridondanti a chi ha apprezzato e compreso questa specifica soluzione ludica.

E’ chiaro dunque che parliamo di un gioco lento ma non per questo noioso, oltretutto non mancheranno impennate legate ai vari quick time event distribuiti lungo la narrativa principale. Sequenze registicamente più veloci in cui il giocatore dovrà premere repentinamente i tasti a schermo per portarle a compimento, anche se purtroppo mai realmente impegnative e presenti in quantità minore rispetto al capitolo precedente.

Shenmue III è Shenmue?

Giunti a questo punto è chiaro che l’intento dell’analisi sia quello di valutare questa produzione in ottica di esperienza specifica, di quell’esperienza promessa e tanto attesa dai fan. Rifiutarsi di evidenziare difetti che in realtà altro non sono che caratteristiche non è mancanza di onestà, al contrario, è la volontà di descrivere un gioco fuori dai canoni, anche per mettere in guardia coloro che non amano rinunciare a quegli standard ormai divenuti così familiari.

Inutile tergiversare oltre, l’unica domanda alla quale è necessario rispondere per valutare Shenmue III con cognizione di causa è: siamo dinanzi al degno terzo capitolo della saga? E la risposta non è poi così scontata.

Se dal punto di vista meccanico il gioco funziona egregiamente, rispolverando una formula ancora oggi affascinante e un’esperienza emotivamente forte grazie all’immersione nel contesto, quel che è venuto a mancare non è del tutto riconducibile ai limiti produttivi.

Se si può e si deve chiudere un occhio sulla regia zoppicante, o sulla riduzione di alcune routine degli NPC, altrettanto non può dirsi per la scrittura e la sceneggiatura. Tralasciando alcune discrepanze presenti anche in altri giochi di questo tipo (come conoscere una persona che giusto poco dopo, quando la si deve interpellare ai fini narrativi, sembra essersi dimenticata di noi), è durante gli scambi di battute tra i vari personaggi che capita di imbattersi in alcuni nonsense in grado di minare la sospensione dell’incredulità, per fortuna sporadici ma pur sempre dissonanti. Questo problema, che resta tale a prescindere, è avvolto però da un alone di mistero riguardo le cause che l’hanno generato. Bisogna considerare che le varie localizzazioni sono state finanziate con i fondi raccolti su Kickstarter (tanto che rientravano tra gli Stretch goals) e sicuramente sono state affidate a team quasi amatoriali, lontani dalla professionalità. Non a caso, leggendo i dialoghi in italiano si possono segnalare non solo tantissimi errori di battitura, ma anche svariate incongruenze con il parlato in inglese, di per sé altrettanto problematico. Non va dunque esclusa la possibilità che i problemi legati alla scrittura siano, almeno in parte, riconducibili alla traduzione dal giapponese in tutte le altre lingue, compreso il doppiaggio. 

Un’altra importante sbavatura riguarda quei personaggi che aiuteranno Ryo Hazuki (protagonista del gioco) lungo il suo pellegrinaggio. La sensazione è che alcune sequenze narrative siano state approssimate in corso d’opera e che a rimetterci sia stato proprio il ruolo di alcuni comprimari, introdotti troppo bruscamente e mai approfonditi nella loro caratterizzazione. Certo è vero che, a differenza degli indimenticabili Ine San, Master Chen, Wong, Joy o Xiuying Hong, si tratta solo di comparse e non di punti di riferimento. Una situazione probabilmente voluta e che pone al centro delle vicende il rapporto tra Ryo e Shenhua, impreziosito da quei particolari futili solo all’apparenza, come il buongiorno ogni mattina o una premurosa raccomandazione, che ci avvicinano alla nostra compagna di viaggio al pari dei racconti serali dove emerge la sua visione del mondo, molto simile alla nostra.

La storia poi, seppur non priva di colpi di scena distribuiti lungo le circa trenta ore richieste al completamento, manca di quell’epicità travolgente che ha contraddistinto i cliffhanger dei capitoli precedenti e l’idea è che Shenmue III contenga solo un breve estratto della narrativa complessiva. Il gioco necessitava forse di un ulteriore passo avanti, di almeno un ulteriore paragrafo delle pagine scritte da Yu Suzuki, ma non sapremo mai quanto e come i limiti produttivi abbiano influenzato anche questo elemento di primaria importanza. Ciò non di meno l’ennesimo (e preannunciato sin quasi dall’inizio dei lavori) finale tronco potrebbe lasciare un retrogusto agrodolce tra i palati più fini ed esigenti della fan base, nonostante una sequenza finale che prova, a fronte delle risorse risicate, di mescolare nel miglior modo possibile drammaticità e un pizzico di ironia, prima di chiudersi nei titoli di coda. 

Conclusione

Shenmue III rappresenta una vittoria dell’arte sul commercio“. Un prodotto destinato a scomparire, ucciso da un mercato che non offre seconde possibilità a nessuno, salvato però dall’amore e dalla passione del suo creatore e dei suoi stessi fan, disposti a finanziarne lo sviluppo pur di tornare a vestire i panni del protagonista, Ryo Hazuki. L’obiettivo era dunque di non scontentare innanzitutto questa nicchia di appassionati, oltre che riproporre la stessa identica formula che ha reso iconici i predecessori. E complessivamente Shenmue III è riuscito in questa impresa. L’esperienza è ancora tutta lì, forte di un’immersione che non si trova altrove, salvo nelle più recenti produzioni Rockstar, che però, a fronte di investimenti multimilionari, giocano in un’altra categoria. I limiti produttivi e il budget risicato hanno senza dubbio compromesso in parte l’evoluzione della saga, che, grazie alla sua non canonicità, riesce anche a distanza di così tanto tempo ad offrire una validissima alternativa ai prodotti copia carbone che ormai monopolizzano il mercato a tutti i livelli.

Ciò nonostante è chiaro che non parliamo di un prodotto adatto a chiunque, ma l’appartenenza a un genere o una categoria destinata a una nicchia non è certo di per sé un difetto. L’essere frutto poi di una visione autoriale, tanto estranea alla massificazione e all’omologazione, è addirittura un potenziale pregio. Un’opera autoriale di questo tipo nemmeno è tenuta a seguire pedissequamente il solco delle regole commerciali, anche quando la sua ostinata unicità ne compromette la diffusione. 

Resta il rammarico al pensiero di quel che Shenmue III sarebbe stato se finanziato nel modo giusto e sviluppato lungo un normale processo produttivo, ma al contempo non si può soprassedere su alcuni difetti che vanno a minare proprio gli unici elementi sui quali non vi era margine di errore, la profondità narrativa e la caratterizzazione dei vari comprimari.

Tutto sommato, va detto e sottolineato, il gioco funziona anche molto meglio di quanto fosse lecito aspettarsi, e l’impatto emotivo, seppur ridimensionato rispetto ai capitoli precedenti, lascia ancora nel giocatore quel desiderio profondo di vedere oltre, di proseguire questo viaggio iniziato vent’anni fa per scoprire finalmente cosa si cela dietro al mistero degli specchi e per saziare, una volta per tutte, la sua sete di vendetta.

Shenmue III non sarà dunque un capolavoro, ma riuscirà in un modo o nell’altro a trasmettere sensazioni uniche a chiunque avrà la determinazione di affrontare i chiari limiti produttivi, approcciando con la giusta forma mentis questo terzo capitolo dell’opera magna di Yu Suzuki.

VOTO 8.5

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