Uno spoiler (non) distruggerà il mondo

Informazioni sul gioco

Si è fatto un gran parlare, in questi giorni, del mostruoso leak che ha interessato il prossimo The Last of Us Part II. L’estensione del problema, fra screenshot e interi video che hanno finito per spoilerare parte del finale e del fato dei protagonisti della prossima avventura di Naughty Dog, ha addirittura spinto la software house, di concerto con Sony Interactive Entertainment, ad annunciare una nuova data di uscita per il videogame. Siamo passati dal non avere alcuna data certa al 19 giugno 2020.
Giustamente frotte di gamer e appassionati si sono risentiti per la fuga di notizie, per via di alcuni spoiler in grado di compromettere l’esperienza di gioco. Ma la domanda che qualcuno potrebbe porsi è se, a conti fatti, questi spoiler, questi leak, davvero rischiano di rovinare il viaggio nel secondo capitolo della saga post-apocalittica di Joel ed Ellie. Ce lo siamo chiesti anche noi, buttando un occhio ad alcuni videogiochi che ci hanno raccontato storie fantastiche ed emozionanti, e domandandoci allo stesso modo cosa sarebbe cambiato se avessimo conosciuto prima alcuni dettagli o interi tranci della trama e del finale.
Ovviamente parleremo del finale di alcuni videogiochi e dunque, se non volete spoiler, siete avvisati.

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Prendiamo Fallout 3, terzo capitolo dell’omonima serie post-apocalittica, sviluppato da Bethesda Game Studios e uscito nel 2008. Siamo a Washington D.C. nel 2277, duecento anni dopo un’apocalisse nucleare. Fra radiazioni, umani mutati in ghoul, mostruosità nate dalla scienza e da un futuro devastato, noi siamo poco più che un ragazzo che si trova sbalzato fuori da un rifugio sotterraneo (il Vault 101) che lo ha protetto fin dalla nascita: nostro padre è sparito e dobbiamo scoprire dov’è finito e perché ci ha abbandonati.
Inizia così un viaggio che ci porta a conoscere l’armata tecnologica della Confraternita d’Acciaio e i loro avversari, la determinata e reazionaria Enclave, nella loro lotta per il potere della Zona Contaminata di Washington e di tutti quelli che furono gli Stati Uniti. Supermutanti, robot, giganteschi scorpioni radioattivi e predoni sono solo alcuni dei nemici che ci si parano davanti nel vagare nella Zona Contaminata, durante le scorribande per la nostra quest principale e le molteplici missioni secondarie.
Poniamo caso di sapere in anticipo la conclusione del videogioco, ovvero che, al termine dell’ultima missione, il nostro personaggio perirà, sia che si scelga di aiutare la Confraternita, sia che ci schieriamo con l’Enclave (tralasciando la presenza di un DLC che permette di aggirare questa infausta conclusione). Chiediamoci se davvero, sapendo in anticipo questo enorme ma singolo spoiler, sarebbe cambiato poi molto.

Probabilmente avremmo comunque provato un’ansia sempre maggiore nel vagare nella labirintica metropolitana di Washington, attorniati dalle urla sguaiate dei deformi ghoul.
Magari saremmo stati poi sorpresi di trovare l’Oasi, bosco verdeggiante, in un mondo grigiastro e bruciato.
E ben poco potremmo dire del primo arrivo a Megaton, città di lamiere e scarti costruita attorno a una bomba atomica inesplosa: il nostro pensiero va a Tenpenny, ricco magnate che ci chiede senza giri di parole di far scoppiare questa bomba e condannare tutti gli abitanti. Infatti, a quanto pare, dal suo gigantesco palazzo Megaton rovina il panorama.
Non dimentichiamoci la ricerca di nostro padre, tra misteri e altri vault, fino a giungere perfino in una simulazione virtuale. Il nostro rapporto con Amata, anche lei abitante del Vault 101.
E tutti ricorderanno con affetto il primo incontro con il cane Dogmeat, così come ricorderanno con un po’ di terrore il primo scontro con un Deathclaw, enorme camaleonte modificato in laboratorio. Per non parlare del Vault 108, i cui unici abitanti sono cloni di un certo Gary, tutti folli e in grado soltanto di pronunciare questo nome.
Crediamo che, anche con uno spoiler del genere sulla fine di Fallout 3, ben poco sarebbe cambiato o sarebbe stato rovinato di ciò che è l’esperienza videoludica: una trama e una sceneggiatura avvincenti, una lore profondissima e un’ambientazione ispirata ci hanno donato infatti un RPG con i fiocchi, spoiler o non spoiler.

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Spostiamoci adesso su qualcosa di decisamente più recente: Death Stranding. L’ultima fatica di Hideo Kojima, papà della saga di Metal Gear, è risultata essere molto divisiva, soprattutto per quel che riguarda un gameplay parecchio compassato e particolare.
Nonostante questo, ha portato con sé anche una ventata d’aria fresca e di novità nel mondo delle opere videoludiche. Infatti Death Stranding si basa su di una narrazione atipica e variegata: per conoscere ogni dettaglio della trama e della lore dell’universo post-apocalittico creato da Kojima, infatti, dobbiamo dedicarci alla lettura di moltissimi documenti e guardarci le lunghe e cinematografiche cutscene, quasi come se fossimo di fronte a uno show televisivo più che a un videogame; per il resto, dobbiamo fabbricarci e scegliere le attrezzature adatte a tutta la serie di consegne e missioni che Death Stranding ci propone, camminando e vagando per il placido mondo di gioco, fra neve e pioggia, stando attenti al carico e controllando ogni dettaglio attorno a noi, ogni buca, ogni sasso, ogni nemico in lontananza.
È attraverso queste soluzioni che Kojima ci introduce alla sua ultima opera, tra città devastate e persone costrette a vivere in bunker sotterranei. Il tutto mentre un’estinzione di massa si sta compiendo attorno a noi: da una sorta di aldilà arrivano le BT, le Beached Things (in italiano CA, Cose Arenate), pronte a portare altra morte nel nostro mondo. Da qui in poi, i misteri si infittiscono: uno di questi misteri sono le Spiagge, sorta di oltremondi personali di cui ogni persona è dotata, sfruttate dalla compagnia nota come Bridges per trasferire dati e informazioni.
Ma torniamo un attimo sulla questione: noi interpretiamo Sam Porter Bridges, uno dei coraggiosi corrieri che in questo mondo trasportano oggetti e merci da una città all’altra, da un avamposto all’altro. Cosa succederebbe se noi sapessimo in anticipo qual è la storia che lo riguarda, la sua infanzia e il suo passato? Cosa succederebbe se noi sapessimo in anticipo qualche dettaglio su chi sarà il villain finale del videogioco? O magari su chi sia Cliff, il personaggio interpretato dall’attore Mads Mikkelsen? O, ancora, quale motivo lega alla morte Heartman (il cui volto appartiene al regista danese Nicolas Winding Refn)?

Sicuramente il colpo sarebbe duro e fastidioso. Ma, altrettanto sicuramente, cambierebbe ben poco le sensazioni che Death Stranding è in grado di darci.
Pensiamo alle passeggiate sulle colline, mentre in sottofondo suona la band americano-islandese Low Roar. Per non parlare della fatica di camminare in mezzo alla neve, senza alcun punto di riferimento, sferzati da una bufera che soffia da ogni direzione. O ripensiamo alla paura del primo incontro con le BT, sospese a malapena visibili sulla nostra testa, connesse con la nostra Terra da un filo sottile, un cordone ombelicale che non vogliono abbandonare.
Gli spoiler non sarebbero in grado di modificare nemmeno le prestazioni attoriali degne del miglior cinema del cast, da Norman Reedus al già citato Mikkelsen, fino a Léa Seydoux e Margaret Qualley. Così come intoccabile è la regia delle cut scene, o alcune particolarità del gameplay: quando il BB (il bambino connesso a noi e trasportato dentro un’apposita incubatrice) piange, dobbiamo muovere il controller come se stessimo cullando il piccolo.
Sempre per ciò che riguarda il gameplay, pensiamo alla gratitudine per il prossimo che ci pervade in alcuni momenti. Dobbiamo superare un crepaccio, e dopo due ore di camminata fra le montagne non abbiamo più attrezzature, magari consumate dalla cronopioggia, in grado di accelerare il tempo (e dunque il disfacimento) di tutto ciò che tocca. Però in quel luogo è passato un altro giocatore prima di noi, e ha lasciato lì, su quello stesso crepaccio, una scala, fragile ma in grado di farci da ponte. Possiamo continuare il nostro viaggio, non prima però di aver lasciato una sfilza di “mi piace” al generoso giocatore. E noi stessi potremmo aiutare la comunità di Death Stranding ricostruendo strade, calando funi giù per le scarpate, regalando materie prime e armi, e molto altro ancora.
Certo, con degli spoiler potremmo perderci qualche colpo di scena, ma l’emozione e l’apprensione di alcuni momenti del videogame non mancano comunque di colpire lo spettatore/gamer. Anch’io, personalmente, a un certo punto sono incappato in uno spoiler di rilievo sul finale del gioco. Ciò non ha modificato di una virgola il fatto che, prima della fine, io mi sia ritrovato a commuovermi almeno quattro volte in maniera parecchio pesante.

La lista di videogiochi costruiti talmente bene e diretti allo stesso modo, per i quali nessuno spoiler potrebbe scalfirne la riuscita, potrebbe essere pressoché infinita. Potremmo citare il primo The Last of Us, episodio originale da cui è nata tutta questa discussione. Se ci avessero detto che all’ultimo capitolo non sarebbe arrivato questo o quel personaggio, o che all’opposto Joel ed Ellie sarebbero entrambi sopravvissuti, o ancora che la figlia di Joel sarebbe deceduta in maniera brutale dopo pochi minuti di gioco, nulla avrebbe mutato gli sguardi d’intesa e quasi paterni che il protagonista rivolge alla figlia, così come a Ellie.
La recitazione non sarebbe cambiata di una virgola, così come l’ansia che stringe il nostro stomaco nel momento in cui Ellie rischia la vita o peggio ancora, fra le grinfie di altri e più crudeli sopravvissuti. Così come ogni stramaledetto incontro con i clicker e tutti gli altri infetti, folli a causa del fungo del genere Cordyceps, lo avremmo comunque vissuto come se ne andasse della nostra stessa vita, di qua dallo schermo.

Gli spoiler sono onestamente un bel problema, soprattutto se associati a certi leak, come quello da cui tutto questo articolo è partito, che rischiano di minare seriamente un’esperienza di gioco nella sua totalità. A maggior ragione se siamo di fronte a opere videoludiche di livello e profilo altissimi come i prodotti Naughty Dog. Tuttavia è pur vero ciò che abbiamo detto: un videogioco, proprio in forza della qualità che talvolta mostra nella sua trama, nella sua direzione artistica, nella sua regia, nella sua recitazione, nelle sue meccaniche e nelle sue musiche, non è solo la sua conclusione. Un videogame non è solo ciò che sappiamo o non sappiamo su ciò che accadrà al termine dell’avventura ma, per parafrasare un’espressione forse desueta e abusata, un videogame è l’esperienza e l’emozione che proviamo durante il viaggio che ci porterà a tale fine.

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