Intervista a Roberto Accornero: Geller in Camera Cafè, Maresciallo Rocca e doppiatore

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Dopo aver superato da poco i cento ospiti presenti nella nostra rubrica delle interviste, oggi abbiamo la fortuna di intervistare Roberto Accornero, attore e doppiatore professionista.

Tra i vari ruoli ricoperti da Roberto Accornero lo ricordiamo nei panni del cinico Guido Geller in Camera Cafè o il ruolo del Capitano dei Carabinieri Aloisi nella serie Il maresciallo Rocca.

Chi è Roberto Accornero

Roberto Accornero

Roberto Accornero nasce a Ivrea il 9 marzo del 1957.

Si avvicina al teatro fin da giovane, come scopriremo in questa intervista. Molto attivo nelle produzioni cinematografiche e anche molto presente nel mondo del doppiaggio.

Cosa ha doppiato

Roberto Accornero ha doppiato numerose pellicole cinematografiche, ha prestato la voce a Benoît Poelvoorde in Il prezzo della gloria, Kevin Durand in The Captive – Scomparsa e Joachim Król in Cartoline di morte.

Nelle serie animate ha prestato la voce a Manboshi in One Piece e Mayuri Kurotsuch in Bleach.

Per quanto riguarda i videogiochi, è stato la voce di John Fitzgerald Kennedy e Michael Rooker in Call of Duty: Black Ops, Brian Castavin in Spec Ops: The Line, Cosmo Faulkner in Hitman: Absolution e Chamaleon in Spider-Man 2.

Lasciamo la parola all’artista ora, ecco la nostra intervista a Roberto Accornero.

Se siete curiosi di scoprire altri aneddoti, qui trovate la video intervista.

Intervista a Roberto Accornero

Intervista a Roberto Accornero: dalla radio al doppiaggio

  • Come ti sei avvicinato al mondo del doppiaggio?

Non mi è mai piaciuto il doppiaggio, ma ho sempre avuto un forte senso del dovere. Col tempo, ho messo su famiglia e, non avendo altre opportunità di lavoro, mi sono avvicinato a questo settore. Lo confesso, anche a costo di deludervi, ma magari cerco di recuperare (ironizza N.d.R.).

Ho cominciato a doppiare seriamente dai 50 anni in su, anche se l’avevo già fatto all’inizio della mia carriera. Il doppiaggio, a differenza di altre attività dello spettacolo, era una delle poche che aveva una componente industriale. Se eri nel giro e facevi solo quello, poteva diventare il tuo mestiere.

Alcuni miei colleghi, quando abbiamo iniziato, si sono dedicati esclusivamente al doppiaggio, riuscendo anche a ottenere una certa stabilità economica, magari comprandosi qualche appartamento. Io, invece, non l’ho mai trovato molto istintivo. Per me, il teatro è sempre stato l’arte più naturale, quella che affonda le radici nell’essenza dell’uomo: la recitazione, il raccontare storie attorno al fuoco, la danza, la condivisione di esperienze in una comunità. Da lì discende tutto, anche il resto delle arti performative.

Ho studiato un po’ di storia del teatro, cercando di laurearmi. Tuttavia, mentre frequentavo l’università, ho iniziato a lavorare e si è creata una situazione imbarazzante con il mio professore di storia del teatro, ovvero Gian Renzo Morteo, perché era stato lui che mi aveva trovato del lavoro. Dopo aver lavorato su un suo testo, tornare a dare esami con lui è stato difficile: entrambi cercavamo di non far fare brutta figura all’altro.

Il problema era che quando studi teatro devi analizzare e sintetizzare: studiare, capire e poi restituire il tutto. Ma quando cominci a lavorare, il ritmo cambia e ho iniziato a vacillare. Ho dato sei esami, tutti con il massimo dei voti, ma alla fine ho lasciato l’università. Devo molto a quel professore, tra le cose ha importato in Italia il teatro dell’assurdo traducendo per Einaudi diverse opere.

Nel frattempo, ho avuto la fortuna di lavorare in vari campi, cogliendo le occasioni che mi si presentavano. Mentre alcuni colleghi si dedicavano al doppiaggio in modo stabile, io ho fatto di tutto: teatro, radio e televisione. A Torino, la RAI era un importante centro di produzione e ho lavorato moltissimo per la radio, registrando radiodrammi e altre produzioni. La radio è molto più vicina al cinema di quanto lo sia la televisione. C’è molto più spazio per la fantasia e per l’emozione. Purtroppo, col tempo la radio è stata smantellata per motivi economici e politici e mi sono rivolto al doppiaggio. Ho cominciato tardi, verso i 50 anni, ma non ho più smesso.

Il doppiaggio non è mai stato il mio mestiere preferito, ma con il tempo ho imparato ad apprezzarlo. All’inizio andavo a Milano per fare solo qualche turno e mi godevo la città come turista, ma poi ho capito che dovevo prendere il lavoro più seriamente. Così ho iniziato a portarmi il pranzo da casa e spesso mi muovevo con la bicicletta e il treno, un modo efficiente per spostarsi in città.

Il doppiaggio, nonostante tutto, è un mestiere che può regalare anche momenti di divertimento. Mi ricordo una volta, dopo una caduta nella neve, sono arrivato allo studio con i pantaloni bagnati e li ho dovuti mettere ad asciugare su un termosifone. Per fortuna, nel doppiaggio nessuno ti vede! Nei periodi più estivi mi capita di doppiare a torso nudo, questo è un mestiere dove si suda.

Da allora, non ho mai smesso di lavorare nel doppiaggio. Non mi sento mai completamente sicuro di me, ma ho trovato un certo equilibrio. Ho una voce che suona più giovane della mia età, quindi mi capita spesso di doppiare personaggi più giovani, il che è un vantaggio.

Nel frattempo, ho ripreso a fare anche un po’ di televisione, perché la ruota gira sempre. Purtroppo, la radio non esiste più come una volta, ma si sta riscoprendo il valore degli audiolibri e alcuni stanno cercando di ricreare quel tipo di produzione. Ad esempio, su YouTube o Rai Radio si possono trovare vecchi radiodrammi, un vero patrimonio da riscoprire.

Per esempio, negli ultimi periodi stanno trasmettendo su Rai Radio Techetè la lettura del viaggio in Italia di Guido Piovene, degli anni ’50. Insomma, continuo a lavorare e a guardare indietro al passato con affetto, vivendo questo presente fatto di tanto doppiaggio.

L’esperienza in televisione

  • Qual è il ricordo più intenso legato alla tua carriera da attore e doppiatore?

A parte che io ho una memoria scarsa e le cose devo ripescare un po’ alla volta. Mi è venuto in mente, però, un episodio che ricordo con piacere. Ho fatto una piccolissima parte in un film che inizialmente doveva essere una serie per la televisione. Poi, a causa di un fraintendimento produttivo e un cambio ai vertici della RAI, Marco Tullio Giordana, il regista, decise di trasformare La meglio gioventù da una serie di film di sei ore totali in un unico film. Portò il progetto a Parigi, dove ebbe un grande successo, nonostante fosse stato inizialmente ignorato dalla RAI italiana.

Nel film, una sorta di romanzo storico dell’Italia tra gli anni ’60 e’70 , interpreto un giudice in una scena. Il film tocca molti fatti storici reali, alcuni personaggi sono romanzati, ma sempre legati a eventi storici autentici. Uno di questi eventi è il primo processo in cui, negli anni ’70, i malati di mente di un manicomio, nel periodo della legge Basaglia, furono ascoltati come parte lesa, testimoni e parte civile. Era una novità nella giustizia italiana.

Ricordo che il processo fu innescato da un libro pubblicato da Einaudi dal titolo Portami su quello che canta, che racconta la drammatica realtà di un primario psichiatra che ordinava di portare a lui i malati che cantavano, per poi sottoporli all’elettroshock. Grazie alla lungimiranza di un giudice, questo processo segnò una svolta storica. E io impersonavo proprio quel giudice, anche se all’epoca non sapevo nemmeno il suo nome. Ricordo che andai li giusto un giorno per girare la mia scena. La scena si svolgeva nell’ex tribunale di Torino che è stato usato in molti film.

La mia esperienza sul set fu particolare. Giordana è un regista molto serio e durante le riprese, dopo che la mia scena era finita, mi permisi una battuta col martelletto in mano dicendo: “Stop, va bene!”. Lui non la prese bene e successivamente l’aiuto regista mi disse che Giordana si era molto risentito, vedendola come una mancanza di rispetto. Nonostante questo, ho avuto altre occasioni di lavorare con lui, come nel Processo Pasolini, dove interpretavo un avvocato. Era sempre lo stesso periodo storico, gli anni ’70, e trattava temi molto affascinanti.

Un paio di anni dopo La meglio gioventù, durante una serata di Yoga, dove si mangiava e si beveva, a Torino, mi si avvicinò un signore anziano, magro, con una fetta di torta in mano. Mi riconobbe e mi disse: Lei ha interpretato il giudice ne La meglio gioventù, sono io quel giudice!”. Era Rodolfo Venditti, il giudice che avevo impersonato. Mi vennero i brividi. Scoprii che non solo aveva condotto quel processo, ma che fu anche il fondatore del servizio civile alternativo al servizio militare in Italia.

All’epoca il servizio militare era obbligatorio, io sono riuscito a svincolarmi perché avevo dei piccoli problemi al cuore e, grazie a dei certificati medici, mi hanno esonerato dai servizi di leva e quindi non ho fatto il militare. L’ho fatto nel maresciallo Rocca, ma lì ero pagato meglio (N.d.R. ironizza).

L’incontro con lui [Rodolfo Venditti] mi colpì profondamente. Venditti ha scritto vari libri interrogandosi sul difficile ruolo del giudice e sulla giustizia umana. Riflettendo su questo, mi sono reso conto di quanto sia importante il nostro lavoro. Non si tratta solo di recitare ma di essere consapevoli dell’effetto che quelle cose possono avere.

Nel mio lavoro, mi hanno spesso assegnato ruoli da medici, psichiatri, giudici o avvocati. All’inizio interpretavo personaggi più positivi, ma col tempo mi hanno dato sempre più spesso ruoli da cattivo, forse perché hanno capito che con la mia faccia mi riesce meglio.

C’è sempre questo schema banale per cui si divide tutto in buoni e cattivi. Quado fai cose nazional popolari in televisione ci sono persone che ci credono. Ricordo che a una conferenza stampa di una serie tv dal nome Camici Bianchi, dove interpretavo un medico psichiatrico, una giornalista mi ha chiesto: “vuoi dare qualche consiglio di psichiatria?”. Capisci che c’è qualcosa che non va.

Un’esperienza di doppiaggio recente mi ha toccato profondamente. Ho doppiato un film israeliano, Here We Are, dove il protagonista è un padre separato con un figlio autistico. Il giovane attore che interpretava il ragazzo autistico era così bravo che, ingenuamente, ho pensato che fosse davvero autistico. Quando ho scoperto che era semplicemente un bravissimo attore, mi sono reso conto di quanto fosse riuscito a trasmettere la semplicità e l’autenticità del personaggio.

Ci sono molti momenti come questi che ti fanno capire l’importanza del tuo lavoro e di come riesci a toccare le persone. Quando le storie che racconti fanno riflettere, hai fatto il tuo lavoro al meglio.

Il doppiaggio di Call of Duty

John Fitzgerald Kennedy Call of Duty: Black Ops

  • Sappiamo che hai doppiato Michail Gorbaciov in Call of Duty: Black Ops Cold War e John Fitzgerald Kennedy in Call of Duty: Black Ops. Trattandosi di personalità storiche in un contesto videoludico, com’è stato doppiare un’opera così significativa come la serie di Call of Duty?

Quando interpreti un personaggio realmente esistito, in un certo senso è meno difficile, perché non devi inventare nulla. Non devi prendere decisioni troppo complesse, mentre a volte il vero lavoro sta proprio nel fare delle scelte. Essere indecisi, né di qua né di là, non aiuta a trasmettere un messaggio chiaro. Se vuoi comunicare qualcosa, anche se la scelta può essere sbagliata, devi prenderti la responsabilità di dire: “Vado in quella direzione, faccio quella cosa, sono quella cosa”. Quando un personaggio è esistito davvero, hai qualche punto di riferimento in più.

Non avevo molte battute da recitare, e non c’era molto da fare a livello di invenzione. Esisteva già un certo mood entro cui inserirsi. Ovviamente, avendo visto personaggi come Gorbaciov, ero in grado di discernere come affrontare il ruolo. E personaggi iconici come Kennedy, che ho visto nei filmati, hanno già tanti riferimenti a cui attingere.

Naturalmente, non mi sognerei mai di imitare nessuno. Non sono capace e non è nelle mie corde. Ci sono attori bravissimi che sono molto mimetici, ma io preferisco imitare qualcuno che vedo per strada, piuttosto che personaggi storici. Cerco sempre di evitare l’imitazione diretta.

Per i personaggi realmente esistiti, ci sono sempre dei riferimenti che ti aiutano, mentre con altri, più fantastici o surreali, diventa più complicato. Ad esempio, interpretare un personaggio di un futuro lontano è molto più difficile. In quei casi, non sai bene che tipo di voce usare, se è buono o cattivo. Ci si muove in mondi indefiniti, e per me, lo confesso, è complicato.

In quei casi, cerco di mantenere un certo distacco, perché essere troppo dentro le cose non è sempre un bene. Mi piace portare qualcosa di mio, ispirarmi a ciò che vedo all’esterno, piuttosto che scavare troppo all’interno di me stesso.

Altre esperienze da doppiatore di Roberto Accornero

Benoît Poelvoorde

  • Qual è stato il personaggio più difficile da doppiare, e a quale sei più affezionato?

 Ricordo di aver dovuto doppiare un personaggio parlando con l’acqua in bocca, una situazione piuttosto difficile ma anche divertente. Non ricordo il nome del videogioco, ma era un’esperienza unica.

Nel doppiaggio non ho una classifica definitiva dei lavori che ho fatto. I miei affetti cambiano continuamente. Ho avuto difficoltà con un progetto ambientato in un carcere femminile spagnolo, la serie si chiama Vis a Vis. Ho scoperto che le carceri possono essere private, appaltate a società esterne, e questo è un sistema che non esiste in Italia ma è presente in altri paesi. È stato interessante, anche se inizialmente non conoscevo la serie. Il personaggio che doppiavo, un medico del carcere, era quasi una caricatura del male, con una voce molto bassa. Ho avuto successo, anche se non ero sicuro di aver fatto un buon lavoro all’inizio.

Un aneddoto piacevole è accaduto quando ho portato mia figlia a Napoli sotto Natale. Siamo andati in una famosa pizzeria, da Ciro Oliva. Dopo aver parlato con un cameriere, è arrivato Ciro Oliva, che mi ha riconosciuto grazie alla mia voce, nonostante non seguisse molto la televisione. Mi ha fatto una festa e mi ha dato il suo numero di telefono, permettendoci di saltare la fila il giorno dopo. È stato un momento speciale con mia figlia e abbiamo avuto un trattamento privilegiato. Mi ha riconosciuto per il ruolo in Vis a vis.

Tra i lavori a cui sono più affezionato c’è La Tregua, in cui ho doppiato Juan Blanc. Ho anche lavorato in una serie inglese chiamata Wanderlust, che parla di una coppia di intellettuali che sperimenta una relazione aperta. Gli attori inglesi sono molto professionali e hanno un grande senso del mestiere, che apprezzo molto. Non conosco un attore inglese che non sappia recitare.

Mi piace doppiare commedie francesi e sono attivo nella tutela dei diritti degli attori. In Italia stiamo cercando di migliorare le condizioni di lavoro, e gli esempi di buone pratiche in altri paesi, come l’Inghilterra, sono molto utili.

Inoltre, ho doppiato Benoît Poelvoorde in due film: Podium e Il Prezzo della Gloria. In Podium, ho scritto l’adattamento del copione e mi sono divertito molto a farlo. Sebbene inizialmente non fosse previsto che doppiassi Poelvoorde, alla fine sono riuscito a lavorare su entrambi i progetti. Il Prezzo della Gloria narra di due balordi che trafugano la salma di Charlie Chaplin.

  • Noi ti ringraziamo per la tua disponibilità, ma prima di andare vorremmo conoscere un curioso aneddoto sulla tua carriera.

Quando ero più giovane, mi è capitato di interpretare il protagonista ne La trappola per topi di Agatha Christie. Il mio personaggio era un poliziotto, che all’inizio sembra dover indagare ma poi si rivela essere implicato nella vicenda. C’è una scena clou molto intensa, in cui il mio personaggio, di profilo rispetto al pubblico, ha una pistola puntata verso la protagonista, una giovane donna.

È un momento in cui il pubblico trattiene il fiato, pieno di tensione, perché non si sa cosa succederà. L’azione si svolge in un rifugio, isolato dalla neve, e ci sono diversi personaggi con motivazioni sospette. È una classica situazione alla Agatha Christie, ricca di mistero.

In quel preciso momento di tensione, suona il telefonino di qualcuno nel pubblico. Senza uscire dal personaggio, mi è venuto spontaneo girare lentamente la pistola dalla tempia della protagonista verso il pubblico, mantenendo lo stesso atteggiamento.

La platea è esplosa in un applauso! È stato un applauso che non avevo mai ricevuto in vita mia, come se quel momento fosse perfetto. Dopo l’applauso, ho rigirato la pistola e lo spettacolo è proseguito normalmente.

È stato un aneddoto che sicuramente racconterò ai miei figli, un momento unico di connessione col pubblico.

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