Solitudine e isolamento alla fine del mondo

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Informazioni sul gioco

Il 2020 e l’inizio del 2021 verranno ricordati come mesi da dimenticare, in parte perché di fatto non sono stati quasi neppure vissuti.
Lockdown, quarantena, un virus potenzialmente letale all’esterno delle nostre mura domestiche. Di motivi per cui odiare i mesi passati ne abbiamo a bizzeffe, ed è su di uno in particolare che vogliamo concentrarci con questa riflessione. Il lockdown ha portato con sé, o acuito quando già presente, il senso di solitudine e alienazione, sia che viviamo da soli, sia con qualche coinquilino o parente.
La solitudine e l’alienazione dal mondo, dagli altri, da qualunque contatto umano, sono diventati una costante.
I loro strascichi ce li porteremo dietro ben oltre la fine dell’emergenza pandemica.

La salvezza al termine del mondo

Abbiamo letto, visto e vissuto innumerevoli storie in cui la fine del mondo è arrivata davvero. In queste storie, ogni soluzione proposta dai governanti per dare possibilità di salvarsi all’umanità viene solitamente accettata di buon grado dalla popolazione.
Vediamone qualcuna.

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Per citare una saga molto cara a chi scrive, pensiamo alla serie di Fallout (nata fra le mani di Interplay Productions e oggi proprietà di Bethesda Softworks).
A seguito di un attacco nucleare su larga scala da parte della Cina, il 23 ottobre 2077 gli Stati Uniti divengono una landa desolata nel giro di pochi minuti.

Per salvare quel che resta dei cittadini statunitensi, gruppi di prescelti vengono condotti all’interno dei Vault.
I Vault  sono bunker sotterranei costruiti dalla società nota come Vault-Tec, e sono in grado di fornire ai loro ospiti tutto il necessario per vivere.
Dietro pesanti porte, sotto metri e metri di terra, dietro pareti di cemento armato, gli umani possono sperare così di avere una chance nei decenni, nei secoli a venire. Tutto secondo il motto “brighter future… underground“.

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Se invece vogliamo rivolgerci a un altro videogame, non ci resta che guardare al Death Stranding del maestro Hideo Kojima. Nel videogioco del 2019, ci ritroviamo nuovamente in degli U.S.A. irriconoscibili: un’anomalia soprannaturale, un legame fra il mondo terreno e un aldilà ultraterreno, ha portato all’evento noto proprio come Death Stranding.

Una grandissima esplosione ha portato alla diffusione su tutta la nazione delle B.T. (“Beached Things“) e ha ridotto la totalità degli Stati Uniti alle United Cities of America. Queste sono isole di cemento e metallo che proteggono gli ultimi americani dalle creature e dalla cronopioggia, in grado di accelerare il processo d’invecchiamento e decadimento.
Intanto, fuori dalle città, i corrieri come Sam Porter Bridges si affaticano sulle vette e nelle valli per consegnare spedizioni e pacchi, così che un ultimo legame rimanga fra quelle piccole sacche d’umanità.

Per fare qualche esempio cinematografico e televisivo, fra opere note e meno note, possiamo partire dal film post-apocalittico Air del 2015. Questo vede protagonista fra l’altro Norman Reedus (il Sam Porter Bridges di Death Stranding).

Una catastrofe causata dall’uso di armi biochimiche ha reso l’aria sulla superficie irrespirabile, spingendo il governo degli Stati Uniti a creare una serie di bunker sotterranei all’interno dei quali scienziati e altre menti brillanti sono posti in animazione sospesa, in attesa di poter tornare in superficie.
Il personaggio di Reedus, assieme a quello interpretato da Djimon Hounsou, è uno degli incaricati che, ogni sei mesi, viene svegliato dall’ibernazione per controllare che ogni strumento funzioni a dovere.

Il secondo esempio è invece una pellicola di più alta caratura e che ben si presta alle nostre riflessioni: Dogtooth dello sceneggiatore e regista greco Yorgos Lanthimos.
Una coppia di genitori cresce la propria prole (due figlie e un maschio) in apparente normalità.

La loro casa si trova isolata dal resto della comunità, e l’unico a uscire dalle mura esterne è il padre, mentre ai figli ne viene fatto assoluto divieto. Il motivo è la pericolosità del mondo all’esterno del giardino di casa, dove perfino i gatti sono creature violente e letali.
Con una sorta di ritualità d’incerta origine, le figlie e il figlio potranno uscire solo una volta che uno dei loro canini sarà caduto.

Dalla serialità televisiva recuperiamo invece l’anime Neon Genesis Evangelion del giapponese Hideaki Anno (e legato all’omonimo manga di Yoshiyuki Sadamoto) e ambientato nel 2015, quindici anni dopo un evento apocalittico che ha interamente disciolto i ghiacci dell’Antartide.
Da lì sono iniziati gli attacchi di entità extraterrestri, ben oltre la comprensione umana e divenuti noti come Angeli.

In un infittirsi di misteri e cospirazioni (che purtroppo non abbiamo tempo di dirimere in questa sede), le Nazioni Unite, i governi mondiali e alcune società private come la Nerv iniziano ad armarsi con gli enormi Evangelion. Questi sono costrutti fabbricati dall’uomo ma che portano con sé elementi viventi, derivati da Adam e Lilith, i primi due Angeli.
Gli Eva sono pilotati da giovani guerrieri, che legano il proprio fato a questi mostruosi cyborg, noti come children. I più famosi fra di loro sono Shinji Ikari, Rei Ayanami e Asuka Langley.
Mentre gli Eva combattono gli Angeli, l’umanità fatica a sopravvivere, cercando soluzioni estreme come nel caso di Neo Tokyo-3. Per quanto gran parte della popolazione sia fuggita per il timore, chi è rimasto è abituato a trovare rifugio nel Geofront, gigantesca e corazzata cavità sotterranea.

Dalla letteratura vogliamo attingere da un paio di opere di Isaac Asimov, ovvero Il Sole Nudo e Abissi d’Acciaio, ambientati 1000 anni circa nel futuro.
Per quanto in questi romanzi, che uniscono fantascienza e investigazione, non vi sia apertamente un’ambientazione apocalittica o post-apocalittica, abbiamo deciso di citarli per il setting a tratti surreale ma calzante.

Nel primo dei due libri troviamo il pianeta Solaria, colonia umana in cui la società è rigidamente controllata.
La popolazione del pianeta non eccede mai i 20.000 abitanti, che vivono in isolamento fisico gli uni dagli altri (a meno che non sia strettamente necessario). Su Solaria i compiti sono affidati ai robot, presenti in proporzione di circa 10.000 a 1.
Opposta a Solaria, troviamo la Terra di Abissi d’Acciaio.
Il nostro globo immaginato da Asimov è diventato un caotico compenetrarsi di costruzioni sotterranee, le Città, che ospitano una società ormai al collasso a causa della sovrappopolazione.

E poi c’è la nostra realtà. Siamo a più di un anno dall’avvio del primo lockdown in Italia per contrastare il coronavirus, con il provvedimento firmato dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte il 9 marzo 2020.
Eppure la lotta contro il COVID-19 sembra ancora distante dal concludersi: c’è il vaccino, ci sono le misure restrittive e i provvedimenti. Ma ci sono anche le varianti del virus e le morti che, seppur decisamente più vicine allo zero, ancora persistono.
Non vogliamo essere catastrofisti, e sicuramente non siamo di fronte a uno scenario apocalittico come quelli visti qua sopra, tuttavia bisogna continuare a tenere alta la guardia, se vogliamo uscirne il prima e al meglio possibile.

La follia al termine del mondo

In tutte queste distopie (più la nostra realtà) e storie ci viene mostrata l’umanità che si sforza di farcela, l’umanità che decide che non è ancora finita.
Qualunque pericolo ci sia al di fuori della soglia, resiste e sopravvive.
O almeno ci prova.
Perché talvolta il nemico è già vicino a noi o dentro di noi.

Nell’universo dei vari Fallout i Vault sono la salvezza sotterranea da un mondo di superficie ridotto a un inferno radioattivo, popolato di creature immonde e letali.
Ma la vita sottoterra non è il sogno di cemento e metallo che i sopravvissuti speravano. Esperimenti degli stessi creatori dei Vault, danni alle strutture e altri problemi, infatti, rendono ben presto terribile la vita degli abitanti sotterranei, a cavallo fra la solitudine e l’ansia per la reclusione, e molto oltre.

Questo lo sanno bene gli abitanti del Vault 19 nell’arido Mojave (visto in Fallout: New Vegas), vittime di uno degli esperimenti della Vault-Tec. Suddivisi in due settori distinti (blu e rosso, ciascuno con un proprio soprintendente), nel corso del tempo sono stati spinti gli uni contro gli altri. Questo è stato possibile grazie a messaggi subliminali, determinati pattern di luci e suoni, odori e rumori. Ciò gli ha portati a credere che fosse in atto una cospirazione organizzata dalla fazione opposta, magari con lo scopo di eliminarli dal Vault. Questo fino a che degli abitanti non ne è rimasto nessuno in vita.

Una sorte di paranoia e follia è anche quella toccata all’solitario abitante del Vault 77. Unico sopravvissuto all’interno del bunker, si è ben presto ritrovato a crearsi quella compagnia venutagli a mancare. E il modo che ha trovato è stato iniziare a parlare con alcuni burattini in dotazione all’interno del Vault. Questo finché, in compagnia di uno di questi burattini, l’abitante non decide di lasciare il rifugio.

Intanto la Zona Contaminata attorno a Washington (setting di Fallout 3) si è mostrata costellata di Vault dalle storie tragiche. Nel Vault 112, l’intera popolazione del bunker ha abbandonato la consapevolezza del mondo esterno per rifugiarsi in una realtà virtuale fatta di stereotipi, senza contatti con la realtà. Anche in questo caso l’esperimento della Vault-Tec è stato segnato dal fallimento.

Pure nel Vault 92 abbiamo scoperto le macchinazioni dell’azienda e il suo influsso sulla psiche e sul comportamento umano. Infatti questo Vault è stato ufficialmente creato per salvaguardare il patrimonio musicale (ospitando musicisti e strumenti di valore), ma non soltanto. Gli abitanti, oltre all’isolamento e alla convivenza forzati, hanno iniziato a convivere con un persistente rumore bianco, creato specificamente per modificarne il comportamento. La fine del mondo, la solitudine, assieme a questo silenzioso indottrinamento, hanno condotto un altro Vault al massacro.

Altro esempio simbolico di ciò che la fine del mondo comporta per l’umanità, fra solitudine e follia, lo troviamo nel Vault 95. Locato nei dintorni della Boston di Fallout 4, questo Vault era ufficialmente stato creato per accogliere persone che avevano avuto problemi di dipendenza da droghe. Con un fine altamente nobile, il Vault apparentemente riesce a resistere grazie alla buona volontà dei suoi abitanti, che trovano insieme la forza per andare avanti in un mondo distrutto.
Tuttavia è sufficiente una piccola variabile affinché questo castello di carte crolli inesorabilmente. Un agente della Vault-Tec, tempo dopo la chiusura del rifugio, apre un nascondiglio segreto pieno di sostanze stupefacenti. Venuti a saperlo, abbandonato qualunque legame, senso di fratellanza e di comunità, gli abitanti del Vault 95 finiscono per uccidersi a vicenda solo per avere un’ultima dose, di là dall’apocalisse nucleare.

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Di Death Stranding tanto potremmo dire in merito al suo mondo e ai suoi pericoli.
Tuttavia il fulcro dell’opera del maestro giapponese non è la mera successione degli eventi, ma ciò che questi rappresentano.
Nel gioco, nonostante la devastazione, troviamo l’umanità che ancora riesce a sopravvivere. Questa però è una sopravvivenza soltanto nominale, che tanto è costata ai sopravvissuti.

Le persone hanno di che mangiare e perfino di che divertirsi grazie al lavoro dei corrieri, ma la loro è un’esistenza di solitudine e difficilmente vedono qualcun altro di persona, se non loro stessi o un’ologramma. Progressivamente, soprattutto per quel che riguarda i remoti prepper e gli abitanti più distanti dalle città, assistiamo a un isolamento sempre maggiore. Ciò conduce inevitabilmente anche all’alienazione e alla paura del prossimo.
I traumi, le difficoltà, l’ansia di ciò che c’è fuori, hanno reso chi ce l’ha fatta spesso anaffettivo e senza empatia.
Anche fra i personaggi principali assistiamo a disturbi di vario genere.

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Heartman, che ha perso la famiglia a causa del Death Stranding, è un esempio perfetto. Aiuta al meglio che può l’umanità, ma allo stesso tempo conduce una vita da recluso, nel ricordo dei cari che ha perso. A intervalli regolari entra in uno stato di morte indotta così da raggiungere la Spiaggia, il suo personale Aldilà, alla ricerca della moglie e della figlia. Fa ciò, consapevole di essere già morto ormai da tempo.

E poi c’è il protagonista, il Sam di Norman Reedus. Con una storia di abbandono e pochissimi rapporti sociali alle spalle, Sam ha mostrato nel tempo il nascere in lui dell’afefobia. Questo disturbo consiste nella repulsione se non nella paura per il contatto umano. Nel mondo di Death Stranding, che a Sam ha regalato anche la morte della moglie incinta, la fine di tutto è la devastazione della psiche di chiunque, lui per primo.
Però, almeno per Sam, sembra esserci una via d’uscita. Nel suo viaggio riesce infatti a incontrare colleghi e amici a cui affezionarsi, oltre al piccolo BB, che porta connesso a lui sul petto.

Air, altro bunker, altri sopravvissuti, stessa solitudine e stessa conseguente follia.
Nella mediocre pellicola di Christian Cantamessa troviamo comunque l’interessante spunto della paura alla fine del mondo.
C’è ovviamente la paura del mondo esterno, irriconoscibile e ostile, assieme alla paranoia di quello che sta succedendo al di là delle nostre sicure ma fragili pareti.
Ma c’è anche e soprattutto la paura di trasformarsi in bestie, fino ad arrivare a uccidere i nostri simili pur di salvare noi stessi, fino a diventare i “cattivi”.

Nella storia dei due tecnici del bunker lo vediamo in due punti ben precisi.
Durante il primo di questi, uno dei co-protagonisti rischia la morte nella sua camera d’ibernazione, vittima di un malfunzionamento. Dovendo trovare un nuovo alloggio per uno di loro, fra le opzioni c’è quella di espellere uno degli altri abitanti ibernati, di fatto uccidendolo.
Esclusa questa, ma solo a riluttanza, i due provano a raggiungere un bunker vicino. Facendo ciò scoprono la morte di tutti i residenti di quella struttura e non solo. I sistemi sono infatti stati programmati per mentire ai protagonisti, affinché continuino a pensare di non essere i soli sopravvissuti.

Questa è solo una delle tragiche scoperte del film. Nel frattempo infatti il tecnico che aveva rischiato la vita trova un video inequivocabile. Nel video osserva il suo collega, mentre tentenna a lungo prima di salvarlo dalla camera d’ibernazione difettosa.
Così arriva inevitabilmente il confronto finale, con la morte del co-protagonista incerto sul salvare o meno il collega.
Ma anche qui l’opera termina con un velo di speranza, con i residenti ibernati che tornano alla vita e con l’umanità che può pensare di combattere ancora.

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La paura è al centro anche di Dogtooth.
Nessun membro della famiglia si azzarderebbe a uscire oltre la recinzione di casa senza le dovute precauzioni. L’unico a cui è concesso è appunto il padre, ma solo a bordo della sua auto e solo per andare a lavoro.
I pericoli sono così orribili che è meglio una vita di reclusione e solitudine, o almeno è quel che i genitori fanno credere ai figli. Perché in realtà è di questo che si tratta: fiducia e paranoia alterano la realtà, in un complotto dei genitori che vedono sì un mondo esterno pericoloso per la prole, ma pericoloso solo a livello morale.

Intanto questo complotto ha incrinato la psiche di tutti, con il padre che finge di essere stato aggredito da un gatto coprendosi di sangue, mentre i figli iniziano a impazzire. Quasi a seguire il titolo del film, s’improvvisano cani e abbaiano per tenere lontani i gatti da casa.
Ben al di là dello scoprire alcuni oggetti del mondo esterno, le due ragazze e il ragazzo si spingono perfino oltre.
Il segno che quella solitudine e quella salvezza tanto osannate sono state invece la morte delle speranze genitoriali è l’incesto.
Dalla paura alla solitudine, dalla paranoia alla pazzia, fino al destino incerto di un’intera famiglia.

Neon Genesis Evangelion: la fuga, la sopravvivenza, la salvezza dubbia e solo temporanea.
Questi potrebbero essere i fulcri dell’opera d’animazione giapponese.
Oppure no, perché il problema non sono solo i ciclopici Angeli con il loro Absolute Terror Field.
Né lo è la devastazione che portano, in grado di radere al suolo intere città in un attimo.

Per scoprire qual è il vero problema, il cuore della sofferenza dell’umanità e dei protagonisti dell’anime, dobbiamo nuovamente rivolgerci all’umanità stessa e ai dolori che si causa da sola. Senza neppure scomodare gli esperimenti genetici della Nerv, sia sugli Angeli e sugli Evangelion, sia con il DNA umano, possiamo tornare indietro nel tempo.
Com’è stato già per Sam di Death Stranding o per i figli di Dogtooth, a soffrire per un mondo ostile e per un’ansia persistente troviamo dei personaggi con un passato di abusi tanto quanto il presente. Solo per limitarci ai tre giovanissimi protagonisti e piloti di Eva, sia Shinji, sia Asuka che Rei, hanno esperienze devastanti alle spalle.

Il primo dei tre ha dovuto affrontare non solo la fine del mondo, con la morte della madre durante un test con gli Evangelion, ma anche l’abbandono da parte del padre (comandante all’interno della Nerv), che lo ha ritenuto inutile. Questo finché non gli ha ordinato di presentarsi, ancora adolescente, per diventare una macchina da guerra. Conseguentemente la psiche fragile di Shinji rischia di andare in pezzi di episodio in episodio, con un’insicurezza e un senso di solitudine totalizzanti.

Non da meno è Asuka, pilota nippo-tedesca nella cui vita l’arrivo degli Angeli è stato il problema minore. Anche sua madre infatti subisce i risultati di un test di un Eva, con un tracollo emotivo che la porta a non riconoscere più la figlia e a trattare come tale una bambola. Distrutta da questo, Asuka deve poi assistere pure alla morte della mamma, che trova impiccata. Da quel momento la ragazza inizia a nascondersi dietro una facciata di sicurezza ostentata ma quasi mai vera (che sia con gli altri piloti, con i superiori, con i tutori). La vera Asuka sporadicamente si mostra, divenendo spesso un pericolo per se stessa, come quando tenta il suicidio.

Infine abbiamo Rei, la cui storia non nasconde meno punti oscuri delle due precedenti. Anche lei nata all’alba della fine del mondo, non è veramente nata. Risultato degli esperimenti genetici della Nerv, Rei è in realtà una clone che il comandante Ikari (padre di Shinji) ha creato ripensando alla moglie morta. Cresciuta nelle profondità del Geofront sotto Neo Tokyo-3, con pochissimi contatti umani e ben poco amore, Rei spesso appare agli altri più come un guscio vuoto.
Questo non per colpa sua, che anzi più e più volte s’interroga su ciò che rappresenti essere umani e su ciò che lei è davvero. Intanto, pronte per essere utilizzate, decine di altre “Rei” attendono a centinaia di metri sotto la superficie.

Concludiamo con Asimov e con i suoi Il Sole Nudo e Abissi d’Acciaio.
I pianeti totalmente diversi al centro delle vicende dei due romanzi fantascientifici, la Terra e Solaria, sono in realtà assai simili fra di loro.

Solaria de Il Sole Nudo, visto con i nostri occhi, ci dà molti spunti di riflessione.
Nella sua desolazione e nei suoi silenzi rotti solo dal lavorare delle migliaia di robot, regna una sistemica e quasi patologica paura del diverso, delle persone all’esterno dei nostri possedimenti.
Ogni abitante pensa solo a sé e alla propria salvezza, senza alcun riguardo per chiunque altro.

Le Città di Abissi d’Acciaio, come i bunker di Fallout o di Air, come i rifugi di Death Stranding e le basi di Neon Genesis Evangelion, sono dedali sotterranei di ansia. A dominare la vita là sotto è la frenesia e la morte allo stesso tempo.
Se infatti c’è un continuo movimento, come uno zampettio di formiche in un formicaio, allo stesso tempo gli umani sono l’ombra di ciò che furono.
Nonostante la sovrappopolazione, nonostante la mancanza di un vero pericolo, gli abitanti delle Città non escono, non si incontrano più.
La loro vita è in quei cubicoli che chiamano case.
Di nuovo siamo di fronte alla paura e alla solitudine, la paranoia e forse la fine della speranza. Sia che ci troviamo su Solaria, sia che siamo sulla Terra.

 

Abbiamo visto di mondi alternativi e futuri (im)possibili in cui l’umanità è andata incontro alla sua fine, per colpa propria o di altri.
Abbiamo visto storie di terrore, paranoia e solitudine.
Poi distogliamo lo sguardo dallo schermo e, come dicevamo più sopra, proviamo a guardare attorno a noi e dentro di noi.
Cosa troviamo?

Un mondo normale: un mondo di solitudine

A noi tutti scrutare fuori dalla finestra ci ricorda cos’era il mondo poco più di un anno fa.
Lo scrutare ci ricorda quanto possa diventare facilmente pericoloso avere un semplice contatto umano con chi non fa parte della nostra ristretta cerchia di conoscenze.
Ci fa tornare in mente la paura di scoprire che uno dei nostri genitori, figli, amici, è ricoverato in ospedale, in bilico sull’orlo della morte.
Ci ricorda che tutto questo deve ancora finire, ancora a lungo le notizie sul coronavirus saranno il piatto forte dei telegiornali.

E noi cosa possiamo fare?
Spesso l’unica via di fuga è l’isolamento, e no, non parliamo solo di distanziamento sociale.
Ci allontaniamo, ci dividiamo dagli altri, ci separiamo e pensiamo che così tutto passerà più in fretta e in maniera più indolore. Ma questa è solo una credenza errata.
L’unica cosa che accade è che rischiamo solo di farci più male.
In particolare il rischio che da una solitudine indotta dalla pandemia si passi a qualcosa di peggiore è soprattutto altissimo per chi già prima del coronavirus soffriva di determinati disturbi.
Le situazioni aggravate dal COVID-19 sono tantissime e colpiscono giovani e adulti che, prima o dopo, hanno avuto problemi relazionali, di autostima o di coscienza di sé.

Dunque abbiamo visto e vediamo un peggioramento della condizione di chi già soffriva di paranoia, depressione o fobia sociale, o magari rientrava nel fenomeno degli hikikomori.
In tutti questi casi (con le ovvie differenze legate all’aspetto clinico), ci troviamo di fronte a problemi legati alla socialità, al rapporto con se stessi e con gli altri.
Una condizione da “fine del mondo” aggrava la paura dell’esterno e degli altri, peggiora l’idea che abbiamo della nostra esistenza e di chi siamo, deteriora la fiducia nel ritorno a un’esistenza migliore, a un “prima” idilliaco.

Assieme a chi già soffriva di depressione, ansia sociale o si poteva definire hikikomori, ci sono poi coloro che sono caduti in questi fenomeni proprio a causa del virus.
Per la prima volta, tantissime persone hanno scoperto un mondo fatto d’incertezza perenne, di dubbi esistenziali durante ogni minuto, di terrore anche a varcare la soglia di casa o della propria camera, di insonnia, autolesionismo e pensieri autodistruttivi.
Fino al suicidio, in terribile aumento in Italia e in tutto il mondo, fra i giovanissimi ma non soltanto.

In occasione della prima ondata e del primo lockdown, il nostro governo aveva attivato un numero verde di supporto psicologico 24 ore su 24. Questo tuttavia è stato disattivato al termine della prima crisi, per non essere più messo in funzione.
Altri governi si sono mossi in maniera decisamente più drastica e ampia. Il Giappone ha istituito addirittura un Ministero della Solitudine, dedicato specificamente al trovare una soluzione al problema di depressione e suicidi, piaga del paese.
Nonostante questo, per avere un quadro totale dei danni che la pandemia sta causando alle nostre menti (non ultima la depressione dei medici e dei sopravvissuti al coronavirus), serviranno studi più approfonditi.

 

Ciò che è certo è che abbiamo purtroppo scoperto la nostra fragilità.
Non parliamo del sistema sanitario o della nostra debolezza di fronte a un virus.
Parliamo della nostra mente.
È come se fossimo noi stessi gli impauriti, paranoici e schivi abitanti dei Vault.
Gli insicuri Sam e Heartman, oppure i prepper e gli altri ostinati reclusi delle United Cities of America.
Siamo gli ansiosi tecnici di un bunker e una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi.
Ci sentiamo come degli adolescenti cresciuti nelle aspettative altrui, all’ombra di enormi cyborg.
Siamo i sospettosi coloni di Solaria e i nevrotici abitanti di metropoli sotterranee.
Qualunque cosa siamo, dobbiamo imparare a prenderci cura di noi stessi e degli altri.
Solo così potremo davvero scappare da questa fine del mondo, adesso che è uscita dalle nostre opere di fantasia.

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