Videogiochi e schwa: localizzazione italiana e linguaggio inclusivo

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Il mondo dei videogiochi, nonostante il progresso tecnologico, alle volte ha difficoltà a stare al passo con la società, e non si tratta solo dello schwa che abbiamo messo nel titolo. Parliamo infatti in generale di inclusività nei videogame, dalla presenza ancora scarsa di determinate tipologie di personaggi (quando non aggiunte unicamente come token LGBTQIA+, magari solo perché sta iniziando il Pride Month) alle rarissime rappresentazioni di ciò che ancora viene visto come distante dalla realtà, come nel caso del poliamore.

Tralasciando però appunto le non monogamie e le varie categorizzazioni in cui possiamo suddividere il vastissimo universo arcobaleno, rimane l’argomento di oggi, giusto in occasione del Mese del Pride: schwa e linguaggio inclusivo nella localizzazione italiana dei videogiochi.

Essere “politicamente corretti” quando si parla o si scrive non vuol dire aderire a una moda: significa fare lo sforzo di esprimersi in un linguaggio rispettoso verso minoranze e gruppi di individui solitamente oggetto di pregiudizi e discriminazioni […].
Sostituire le espressioni discriminatorie o spregiative serve a:
– parlare di gruppi di individui ai quali non si appartiene, rivolgendosi a loro in maniera appropriata […] e usando se possibile i termini che i gruppi stessi hanno scelto […].
Manolo Trinci, Le basi proprio della grammatica

Lo schwa

Cos’è lo schwa in linguistica

“Scevà (adattamento italiano di Schwa, trascrizione tedesca del termine grammaticale ebraico shĕvā /ʃəˈwa/, che può essere tradotto con «insignificante», «zero» o «nulla») è il nome di un simbolo grafico (meglio, di un segno paragrafematico) ebraico […] [utilizzato] per indicare l’assenza di vocale seguente o la presenza di una vocale senza qualità e senza quantità, quindi di grado ridotto.
Lo scevà è un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono […]; spesso, ma non necessariamente, una vocale media-centrale. È trascritto con il simbolo IPA /ə/ […].

Lo scevà è molto comune nelle lingue del mondo, come allofono di fonemi vocalici atoni, soprattutto in fine di parola.
In inglese è la vocale protonica […].
Articolatoriamente si tratta di vocali non completamente realizzate e prodotte con un grado di apertura intermedio, con la lingua in posizione centrale e dalla qualità indistinta.

“[…] In italiano lo scevà non è presente come fonema (avendo l’italiano standard solo vocali distinte e nette), ma solo come variante libera, o in alcuni casi contestuale, di quasi tutte le vocali.
Lo scevà appare invece in diversi dialetti del Centro e del Sud d’Italia. In alcuni dialetti, come quelli di Napoli e Bari, la riduzione a scevà delle vocali finali neutralizza opposizioni flessive o distinzioni morfologiche […].

Così leggiamo su Treccani.it, che ci dà un’infarinatura generale sull’origine linguistica dello schwa (qui chiamato con l’italianizzato scevà). Lo scevà è infatti parte dell’alfabetico fonetico internazionale, ovvero la serie di simboli che raffigurano i fonemi (per semplificare, i suoni) che produciamo quando parliamo e che ovviamente possono mutare di parecchio da lingua a lingua.
Come indicato sul sito dell’enciclopedia, si tratta di un fonema, dunque un suono, che non è presente nell’italiano standard o neo-standard, ossia l’italiano che parliamo tutti i giorni. Lo troviamo però in tantissime lingue straniere, per dare sonorità a quelle vocali che si trovano a cavallo fra le altre vocali (sappiamo che questa è, a livello di studi di linguistica, una semplificazione estrema).

L’esempio più facile per provare a capire la pronuncia dello schwa, è provare a pronunciare le parole inglesi della tabella qui sopra.
Ma, come dicevamo e come scrive Treccani, lo schwa lo si può trovare anche in Italia, all’interno di alcuni dialetti. Dunque non è proprio esatto dire che la popolazione italiana sia totalmente ignara dell’uso dello scevà.
Ciò che cambia è la serie di modi e le finalità con cui può essere applicato oggi.

Le applicazioni a favore dell’inclusività

Se questa è l’origine accademica dello scevà, ben nota a chi mastica il mondo della linguistica e degli idiomi, c’è poi appunto il motivo per il quale abbiamo deciso di addentrarci in questo intricato universo che mescola inclusività e videogiochi: lo scevà come strumento utile per tendere a un linguaggio più inclusivo.
In merito, c’è un interessante approfondimento de Il Post, di cui vogliamo riportare alcuni passi, che centra in pieno la questione.

Nel dibattito in corso da alcuni anni su come rendere l’italiano una lingua più inclusiva e meno legata al predominio del genere maschile – di cui si è parlato anche sui giornali, di recente – una delle soluzioni più citate riguarda l’utilizzo del simbolo ə, chiamato schwa, al posto della desinenza maschile per definire un gruppo misto di persone, come attualmente si insegna a scuola […].

La ragione per cui chi promuove un utilizzo più inclusivo in italiano propone di utilizzare lo schwa prende spunto sia dall’uso che se ne fa oggi, nell’ambito dell’alfabeto fonetico internazionale, sia nel suo passato da convenzione grafica […]. C’è un’altra ragione, più intuitiva: come ha scritto Luca Boschetto, un attivista fra i primi a suggerire l’utilizzo dello schwa nell’italiano scritto, lo schwa graficamente assomiglia ad una forma intermedia tra una “a” e una “o”, cioè le due vocali con cui in italiano identifichiamo con maggiore frequenza il genere femminile e quello maschile.

La linguista Vera Gheno, che da tempo sostiene la necessità di trovare soluzioni alternative per evitare il predominio del maschile come ad esempio l’asterisco, di recente ha scritto di avere una preferenza per lo schwa perché rappresenta la vocale media per eccellenza e il vantaggio è che, al contrario di altri simboli non alfabetici, ha un suono – e un suono davvero medio, non come la U che in alcuni dialetti denota un maschile.”

Dunque da un lato lo scevà lo si può utilizzare per gruppi misti di uomini e donne, ma non soltanto. Uno degli utilizzi più comuni, se non il più comune, con cui possiamo incappare nello ə online è quando dobbiamo riferirci a una persona che non si riconosca né nel genere maschile, né in quello femminile.
Di fatto, ci riferiamo a quelle tantissime persone che non rientrano nel cosiddetto binarismo di genere, ovvero la suddivisione per compartimenti stagni del mondo fra uomini e donne. Per cui lo scevà lo possiamo trovare utilizzato in forma testuale per identificare persone che per qualche motivo, appunto, non vogliano rifarsi alla classica suddivisione rimasta in vigore finora: non-binary (argomento che avevamo sfiorato diverso tempo fa parlando di tutt’altro), agender, genderqueer, genderfluid, ecc.

Videogiochi e linguaggio inclusivo grazie allo schwa

Non rimarrà niente a parte me stessə
PIOVE., Fuoco

Come ci racconta l’artista di origini romane PIOVE. nella sua canzone Fuoco, quando tutto il mondo è in fiamme, l’unica cosa che ci resta è il nostro io.
E nei mondi digitali, per l’appunto spesso devastati o in conflitto, su cos’altro possiamo fare affidamento se non sul nostro alter ego? E se pure quello ci viene tolto, cosa ce ne facciamo di armi, armature e abilità speciali?
Quest’ultima, definitiva rappresentazione di ciò che ci sentiamo, ciò che vorremmo essere, ciò che siamo realmente, è il nostro cuore. E rinunciarvi significa per l’appunto rinunciare alla nostra stessa persona.

Per questo motivo, nel corso degli anni, seppur timidamente, abbiamo visto diffondersi alternative all’utilizzo di maschile/femminile in chiusura di parola o per il maschile sovraesteso nel caso di gruppi di individui di genere misto.
Fra le proposte avanzate, alcune ad aver avuto maggior presenza online (e non solo online) sono state sicuramente l’asterisco o anche la u.

Ma veniamo a noi e al mondo videoludico.

Gli ultimi esempi di schwa nei videogiochi

Wo Long: Fallen Dynasty e lo schwa

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Negli ultimi mesi, tra le uscite che hanno provato a farsi largo nel panorama dei videogiochi, abbiamo Wo Long: Fallen Dynasty di Team Ninja Koei Tecmo. Si tratta di un soulslike (o perfino sekirolike), dunque con una chiara ispirazione alla ben nota serie di prodotti di FromSoftware.
In questo caso, un po’ proprio come Sekiro: Shadows Die Twice, l’ambientazione è l’estremo Oriente. Siamo in Cina, pochi secoli d.C., e qui le storie di regni ed eserciti si intrecciano con il soprannaturale di entità antiche e poteri magici.

E tuttavia c’è stato spazio anche per l’inserimento di elementi inclusivi, appunto nella forma dello schwa, elemento di cui avevamo già parlato anche all’interno della nostra recensione. Questo è legato alla possibilità, in fase di creazione del nostro avatar digitale, di scegliere un genere che non si riconosca nel binarismo.

Questi utilizzi dello scevà non sempre sembrano risultare accuratissimi (con un uso a volte generico di questo simbolo), ma sicuramente è una novità che non ci saremmo aspettati all’interno di un titolo di tale rilevanza mediatica, così come all’interno di un’ambientazione storica antica come quella proposta dal videogame, per quanto con i suoi elementi fantasy.

Infine, ci teniamo ad accennare alla possibilità, proposta anche dal nostro Emanuele in fase di recensione, che ci siano altri elementi linguistici connessi alla scelta dello schwa.

In ogni caso, ciò segna un elemento non da poco nella storia dell’utilizzo di questo elemento fonetico da un punto di vista inclusivo nell’universo videoludico, all’interno del quale assai raramente abbiamo visto tale scelta.
Purtroppo non è stato possibile risalire ad alcun nome di chiunque abbia lavorato alla localizzazione in italiano. Il che purtroppo non ci permette di dare il giusto credito al lavoro del team di traduzione e adattamento, così come mostra uno dei tanti problemi del lavoro di traduzione e adattamento in italiano.

Wild Hearts: mostri da cacciare e linguaggio inclusivo

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Più o meno nello stesso periodo di Wo Long, giusto qualche settimana prima, usciva un altro videogame, anche questo di stampo asiatico (precisamente grazie alla software house giapponese Omega Force). Parliamo di Wild Hearts, pubblicato da Electronic Arts, che ha voluto proporsi come potenziale concorrente della seguitissima serie di Monster Hunter.

In questo caso abbiamo a che fare con le terre di Azuma (la cui ispirazione è palesemente il Giappone feudale), piagate dalla presenza di alcuni enormi mostri. Inevitabile dire che tali mostri, i Kemono, sono i nostri avversari prediletti.
Nelle nostre avventure, interpretiamo la classica persona predestinata a grandi cose. Come per Wo Long, anche qui possiamo dare vita a una persona che non si riconosca né nel genere femminile, né in quello maschile.

In italiano, grazie anche al lavoro di Carmen Simio in fase di localizzazione in italiano, per riferirsi a tali persone si è optato per l’uso dello scevà, quando evidentemente non era possibile utilizzare espressioni non connotate a livello di genere.
Questa scelta, va detto, per quanto rivoluzionaria (parliamo pur sempre di un titolo con alle spalle EA in cui si è scelto di sfruttare un elemento divisivo come lo schwa per fini inclusivi), non ha forse lasciato il segno. E, alla prova dei fatti, sono state ben poche le testate e le persone che hanno deciso di parlarne.

A parte il mero utilizzo dello schwa in sottotitoli e menu di gioco, forse la vera novità dell’uso dello scevà in Wild Hearts è il fatto che sia presente anche nel doppiaggio in italiano. Di questo ne ha parlato Matteo Lupetti su altri lidi, con direttamente EA che ha detto la sua sull’argomento scevà.

Il passato dello schwa nei videogiochi e le esperienze di chi lavora nel settore

Prima però che arrivasse il 2023 con i suoi nuovi e fiammanti titoli tripla A (o quasi) con i loro scevà in bella vista, lo schwa era principalmente connesso a videogiochi sommersi, piccoli, spesso o quasi sempre totalmente indie. Ecco alcuni esempi che ci raccontano dove tutto è cominciato.

Da Neo Cab a Chicory: agli albori dello schwa

Parlando di videogiochi e schwa, non possiamo non citare due opere sulla cui localizzazione ha messo la propria firma anche Fabio “KenobitBortolotti, ossia Neo Cab e Chicory.

Il futuro di Neo Cab

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Il primo dei due, Neo Cab, è un racconto interattivo fortemente innestato su di un setting cyberpunk, in cui a dominare ogni dettaglio dell’esistenza è la cosiddetta gig economy, il capitalismo portato ai suoi estremi.

In questo caso, Kenobit ha avuto il ruolo di traduttore, e si è poi trovato, con il team con il quale ha collaborato, a dover inserire lo schwa in game. Ciò si è reso necessario in quanto, come ci racconta proprio Bortolotti, “la protagonista conosce l’identità non binaria di questa persona [un personaggio che incontriamo nel gioco] e la rispetta“.

Pertanto, il setting cyberpunk e futuristico è diventato ideale per provare a inserire questa novità linguistica (come vediamo in quest’immagine dal profilo Twitter ufficiale di Kenobit), quando ancora il dibattito su questo simbolo fonetico non era ancora acceso come oggi a livello pubblico, ma si limitava unicamente agli studi accademici.
Fra l’altro, come ci ricorda il nostro traduttore, Neo Cab a quanto mi risulta, è letteralmente il primo gioco che ha implementato uno schwa“.

Il rassicurante mondo di Chicory

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In Neo Cab, dunque, lo scevà è stato sfruttato per riferirsi unicamente a un singolo personaggio. Differentemente, in Chicory lo schwa non si limita a questo: “è un gioco che è tutto stato sviluppato con in mente l’inclusività“.

Dunque lo scevà è utilizzato non solo per le persone non-binary (o comunque che non rientrino nella classica suddivisione fra maschile e femminile), ma anche in qualunque sfumatura ci possa venire in mente, poiché “è stata usata l’implementazione completa del linguaggio inclusivo, dell’italiano inclusivo“, come era stato esplicitamente richiesto da chi ha commissionato il lavoro di localizzazione.
Per questo, la scelta è ricaduta in maniera del tutto naturale sullo schwa da parte di Kenobit (qui in veste di editor, revisore) e di chi prima di lui aveva messo mano ai testi, ovvero Matteo Pozzi di We Are Muesli, che proprio recentemente hanno parlato sui loro social di inclusività e Chicory.

Se dunque da un lato avevamo Neo Cab, con un unico caso di uso dello schwa e in un contesto futuristico, qui abbiamo invece un setting decisamente più fiabesco, ma in cui “questa scelta, che non è ancora la norma, dà una particolarità al linguaggio e lo rende molto bello […]”.

Quindi fiaba e inclusività, questo è Chicory (ora disponibile anche su Game Pass). È “uno Zelda nel quale però puoi disegnare tutto“, così ce lo racconta Fabio Bortolotti, in cui però vengono affrontate tematiche pesanti e importanti come sindrome dell’impostore, stress e senso d’inadeguatezza.
E l’inclusività si vede non solo nei dialoghi, ma fin dai menu, per esempio con domande del tipo “Come vuoi che ci si riferisca a te? Al maschile, al femminile o al neutro?“.

L’esperienza di Fabio

In merito a questo elemento di gioco a cui abbiamo accennato, ovvero i menu e tutto ciò che si rivolge direttamente a chi gioca, Kenobit ha tenuto ad aggiungere che questa cura nei confronti di chi sta da questa parte dello schermo, lui tiene a portarla avanti in ogni suo lavoro.

‘Are you sure you want to quit the game?’, se lo traduci uno a uno, ‘Sei sicuro di voler uscire?’, hai connotato al maschile, inutilmente. ‘Vuoi davvero uscire?’ […] ha una cura linguistica che chiaramente poi diventa parte del messaggio.

Già da questo esempio vediamo come, con pochi e semplici accorgimenti, possiamo utilizzare espressioni inclusive e che facciano sentire chiunque più a proprio agio.
Fra l’altro, sempre nelle parole del traduttore, le sue scelte legate ai videogiochi che abbiamo citato hanno trovato il favore del pubblico, con molte persone che finalmente si sono sentite rappresentate.

Inoltre, riflette Kenobit, “utilizzare l’italiano nel modo più inclusivo possibile a volte è una cura, altre volte è addirittura una necessità, per come sono strutturati magari i giochi open-world“. Il suo riferimento è magari a tutti quei titoli in cui l’avatar di chi gioca non ha alcuna connotazione di genere oppure è totalmente personalizzabile dall’utente. Pertanto il fatto che chi incontriamo in game si rivolga a noi o solo al maschile, o solo al femminile, riduce drasticamente le possibilità che ci sentiamo realmente parte di quel mondo fittizio.

Riguardo invece l’aver potuto sperimentare con lo schwa grazie all’aver lavorato a videogiochi indie, rispetto a quello che avrebbe potuto essere il lavorare a un videogame di fascia (economicamente) alta come Wild Hearts oppure Wo Long, Kenobit fa notare come, per forza di cose, lavorare a titoli piccoli sia sicuramente più facile.
Semplicemente perché “nei titoli tripla A c’è molto meno margine di sperimentazione e non solo. C’è molto meno margine di confronto. […] Hai a che fare con un’azienda con migliaia di persone […] e quindi fare delle proposte […] è molto meno percorribile.”

Wylde Flowers: lo schwa anche su Switch

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Fra i videogiochi nella cui localizzazione si è optato per lo schwa di cui vogliamo parlare c’è poi Wylde Flowers di Studio Drydock, titolo presente su PC, sistemi iOS e Nintendo Switch che rientra, parlando di meri generi videoludici, fra i simulatori con preponderanti elementi di farming e crafting, in cui però non mancano pure appuntamenti, rendendolo quindi anche un dating simulator.

Nel parlare di Wylde Flowers e del lavoro di localizzazione in italiano, ci ha fatto compagnia Chiara Di Modica, che, con le sue collaboratrici Cristina Righi Alice Cutini Calisti, ha lavorato in prima persona al videogame e che, con le sue parole, lo definisce come un “cozy casual“, dunque un gioco che vuole far sentire a proprio agio chiunque vi si avvicini.

Anche in questo titolo, com’era stato in parte per Chicory, dietro una patina colorata e appunto tranquillizzante si nascondono tematiche quanto mai attuali e presenti nella nostra vita di tutti i giorni.
Parliamo, per l’appunto, di inclusività e pregiudizi. Abbiamo una comunità in cui ritroviamo persone e personaggi di diverse culture, etnie e perfino specie (come folletti e altre creature sovrannaturali).

Quindi l’ambientazione pseudo-realistica con queste forti influenze fantasy diventa l’ideale terreno per coltivare tematiche come l’accettazione del diverso e a giocare sull'”ognuno si sente in parte discriminato, ma poi è lui stesso a discriminare gli altri. E quindi questa evoluzione in questo paesino tende a sottolineare queste inconsistenze, queste incoerenze“.

Usi e costumi dello schwa in Wylde Flowers

Con i titoli a cui aveva lavorato Kenobit, abbiamo portato un esempio in cui lo scevà veniva utilizzato per un solo personaggio che non si riconosceva né nel genere maschile, né in quello femminile. Per Chicory invece avevamo invece uno scevà più esteso, un linguaggio inclusivo più diffuso e ampio.

E sono esempi non casuali, così come non è casuale la scelta di Wylde Flowers (qui trovate un approfondimento di TDM Magazine sul titolo), in cui abbiamo un ulteriore modo in cui si può utilizzare lo schwa.
In questo specifico gioco abbiamo deciso di utilizzare lo schwa solamente per l’unico personaggio non binario, per non appesantire la lettura e perché poteva essere un target poco avvezzo o poco a conoscenza di determinate scelte stilistiche inclusive.” così ci ha raccontato Chiara Di Modica, ma oltre a questo lo scevà di Wylde Flowers ha anche un’altra sfumatura.

Screenshot di TDM Magazine

In Wylde Flowers il nostro simbolo fonetico viene infatti utilizzato “al posto del maschile sovraesteso, solamente nelle comunicazioni ufficiali“.
Durante il lavoro di localizzazione, infatti, ritrovandosi con una bacheca all’interno del gioco tramite la quale l’utente può controllare quali sono le quest disponibili, Chiara Di Modica e le sue colleghe hanno ipotizzato che il sindaco potesse optare per una scelta più inclusiva per i suoi cittadini“.

Questa scelta, seppur nata e sviluppata dal team di traduttrici ed esperte di cui sopra, ha la sua origine anche nelle indicazioni iniziali fornite all’avvio dei lavori, che “vertevano sull’importanza che voleva dare lo sviluppatore all’inclusività, appunto perché è il tema base di tutta quanta la storia“, addirittura lasciando totale carta bianca alle localizzatrici, purché optassero per scelte veramente di parte.

La squadra di traduttrici ha sposato appieno questa linea, pur constatando che “poteva essere una scelta delicata, che poteva essere percepita anche a livello politico“. E però, l’opinione di Chiara Di Modica in merito a questa scelta è che “queste cose succedono, queste cose stanno diventando parte integrante della nostra vita“, pertanto hanno deciso di farlo “perché è giusto così“.

L’esperienza di Chiara

Dopo aver sdoganato l’ansia relativa all’introduzione dello schwa in un titolo così pop e aver visto che non è morto nessuno, mi sono sentita molto più tranquilla. […] Ad esempio c’è una stringa, uno dei tratti, in 130.000 e passa parole che ho tradotto per Rogue Legacy 2, in cui mi sono sentita abbastanza libera di osare“.

Screenshot di Chiara Di Modica

Questo è uno dei ricordi che Chiara Di Modica ha voluto condividere con noi, assieme a una serie di altre esperienze in cui ha utilizzato lo schwa come soluzione inclusiva.
È questo il caso di un videogioco con un target preadolescente a tema cavalli. Con un personaggio non-binary all’interno del titolo, il team di sviluppo ha dato via libera riguardo l’uso di neopronomi.

Similmente è andata per la localizzazione di una community VR, con chi ha commissionato il lavoro che “ci ha espressamente richiesto di essere più inclusivi possibili“, dunque pure qui attraverso lo scevà.
Allo stesso modo, un altro esempio che ci ha portato la nostra intervistata è stato un videogame per il quale, direttamente nelle linee guida dell’azienda cliente, si diceva “utilizzate quante più possibile parole neutre. Se il neutro non è possibile, vi preghiamo di far uso di soluzioni ‘non binarie’“.
A entrambi questi lavori, assieme a Chiara Di Modica, ha lavorato anche un’altra localizzatrice che ritroveremo più avanti in queste nostre riflessioni, Beatrice Ceruti.

Per quanto mi riguarda siamo già a 4 titoli [in cui è stato inserito lo scevà], e solo nell’ultimo anno. Più un altro progetto […] che poi non è andato in porto“.
Insomma, un bel palmares di videogiochi con lo schwa al loro interno. E però, basta guardarci attorno per vedere, alla prova dei fatti, nel panorama generale, una situazione ben più desolata.

Solo alcuni esempi

Questi che vi abbiamo riportato sono poco più che alcuni esempi di quali sfaccettature si possano dare allo schwa all’interno dei videogiochi. Basta infatti pensare ai titoli che la stessa Chiara Di Modica ha citato parlando con noi.

Tuttavia, nonostante ciò, è inevitabile, nonché sotto gli occhi di chiunque legga questo articolo, che i videogame in cui si è optato per lo schwa rimangono comunque rarissimi. E, come spesso in questi casi (com’era stato fra l’altro anche quando si era parlato di videogiochi e poliamore), nella stragrande maggioranza di casi si tratta di opere piccole e medio-piccole, e certamente prodotti come Wo Long: Fallen Dynasty e Wild Hearts sono delle mosche bianche.

Schwa e localizzazione dei videogiochi: il futuro dell’inclusività?

Vogliamo aprire questa seconda parte del nostro articolo con alcune domande, soprattutto guardando come (nonostante la rarità di videogame con lo scevà) potrebbe sembrare che queste opere siano in aumento.
C’è la possibilità che lo schwa diventi più comune in tutta la produzione videoludica?
E a quali contesti si potrebbe applicare? E se non si volesse optare per lo scevà, quali possono essere le alternative?

Ad aiutarci a trovare le risposte a queste domande, oltre a Kenobit e a Chiara Di Modica, abbiamo avuto il supporto di altre due esperte di localizzazione di videogiochi in italiano: la già citata Beatrice Ceruti e Alice Buratto.

Una tendenza in aumento?

“[…] La tendenza, sì, secondo me è in netto aumento e sarà sempre più in aumento.
Partiamo con una dichiarazione netta di Beatrice Ceruti: un sempre maggior numero di aziende decide di percorrere la via dello schwa nei videogiochi, per quanto la presenza dell’insolito simbolo rimanga una presenza minima nei titoli videoludici.

E però Ceruti ci tiene a notare come ciò non porti con sé solo lati positivi.
È vero infatti che un elemento semplice come lo scevà possa essere strumento per più minoranze per far sentire la propria voce, ma “i ritmi dell’industria sono estremamente elevati, soprattutto nella localizzazione“. Ciò comporta che “molto spesso non viene dato il tempo di creare una traduzione neutra, come si dovrebbe […] e quindi ci si appoggia allo schwa per pigrizia“.

Accanto al dato statistico che potrebbe farci pensare a un aumento dell’uso di questo simbolo, contando i pluricitati Wo Long e Wild Hearts, segno che anche fra le aziende grosse si sta sdoganando sempre di più, rimane comunque il dubbio, la paura che dietro ci siano motivazioni economiche.
Chiara Di Modica riassume alla perfezione queste perplessità: “bisognerebbe comprendere chi lo fa per token e per cavalcare una moda e chi invece è animato da veri propositi inclusivi, ma temo che non sia facile comprenderlo.

Rincara la dose Fabio “Kenobit” Bortolotti, che parla apertamente della possibilità che si abbiano casi di “rainbow washing“, dunque casi in cui un’azienda, per strizzare l’occhio alla comunità LGBTQIA+, si faccia promotore di valori sociali legati appunto a tale comunità (spesso senza condividerli veramente, del tutto o in parte), “come (che ne so) le lattine di birra […] con l’arcobaleno sopra, ma poi in realtà vanno a finanziare le lobby che remano contro i diritti della comunità LGBTQ+.

Tralasciando però l’ambito di tripla A e software house e publisher maggiori, Bortolotti conclude dicendo che “credo che diventerà sempre più comune e diffuso in ambito indie” e ciò “conterà come letteratura per lo schwa e contribuirà alla sua affermazione.

Infine l’altra esperta di localizzazione che abbiamo raggiunto, Alice Buratto di Wabbit Translations, chiosa con una frase che suona come un proclama semplice quanto potente: “posso sicuramente dire che le persone marginalizzate non si fermeranno e vedremo dove ci porterà il futuro.

Fra inclusione e scelta politica

Io credo fermamente nel cambiamento e credo che parte di questo cambiamento passi dall’allargare le nostre passioni, le cose belle, l’arte, il videogioco, al pubblico più ampio possibile. E, da quando ero bambino, il fatto che il gioco, che i giochi si rivolgessero al maschile, al giocatore, di default, non mi è mai piaciuto.” Questa è la riflessione che ci ha lasciato Kenobit riguardo l’importanza dell’inclusività all’interno del videogioco e non soltanto.

Oltre alla mera inclusività (anche a questo abbiamo fatto riferimento parlando di Wylde Flowers, Neo Cab e Chicory) c’è la scelta politica. Dov’è che finisce la semplice inclusione delle persone marginalizzate e inizia invece una scelta più potente?
Beatrice Ceruti e Alice Buratto sono sulla stessa lunghezza d’onda in merito.

“[…] Quando si usa lo schwa per parlare di una persona non binaria, si riconosce e si legittima la sua identità di genere. Diversamente, scegliere di usare il pronome lui o lei sarebbe un atto volontario di negazione di quella persona.” così Buratto spiega in maniera netta come stiano le cose.
Allo stesso modo, anche Ceruti preme riguardo l’importanza di non lasciare indietro nessuna persona, dato che “è giusto allora che trovi un modo [per rappresentare chiunque]. E molto spesso è lo schwa.

Buratto e Ceruti sono concordi anche nel trovare differenze fra la scelta inclusiva dello scevà nel caso di persone non-binary e invece il suo utilizzo per gruppi misti.
Quando parliamo di scevà utilizzato come plurale neutro per gruppi in cui non ci siano persone di un unico genere, Buratto non ha dubbi a dire che “si tratta di una scelta politica.”
Ci sono varie scelte che si possono fare, si può usare il maschile sovraesteso, il femminile sovraesteso, esplicitare il genere maschile e femminile, esplicitare i generi maschile, femminile e non binario oppure usare solo lo schwa; ognuna di queste scelte comunica qualcosa.

Beatrice Ceruti parla della sua esperienza e di quanto, nella sua totalità, sia “una scelta politica e personale, dettata dalla propria sensibilità. È una cosa che io faccio, non uso sempre lo schwa, ma uso anche spesso gli asterischi o comunque perifrasi […].

In realtà, poi, il discorso che punta a dividere fra scelta politica e scelta personale, o dettata dai propri valori, sullo specifico utilizzo dello schwa nei videogame, si riassume nelle parole di Chiara Di Modica.
Come raccontava parlando del proprio lavoro su Wylde Flowers, “se qualcuno deve storcere il naso per uno schwa, lo farà lo stesso per il contenuto stesso del gioco, in cui c’è un personaggio non binario, ci sono coppie gay e c’è la possibilità di fidanzarsi con persone di ambo i generi.
Insomma, le stesse persone che si sarebbero scandalizzate per la scelta linguistica avrebbero comunque affibbiato recensioni negative al gioco
[…].

A prescindere dallo schwa, infatti, sono molti i casi recenti di critiche, review bombing e quant’altro ai danni di videogiochi definiti woke o politically correct, sfruttando questi termini in senso dispregiativo, che però non hanno traccia di schwa.
Segno questo che, al di là delle potenziali critiche (giuste o meno, ma sensate) che potrebbero essere mosse linguisticamente allo scevà, c’è qualcos’altro di ben più radicalizzato.

Schwa e world building dei videogiochi

Un altro dubbio che potremmo avere sull’uso dello schwa è legato a quello che potremmo definire il setting del videogame.
Di base, infatti, potremmo avere la tentazione di pensare che potrebbe sposarsi alla perfezione unicamente con contesti e mondi di gioco più contemporanei e futuristici.

“[…] Secondo me la caratteristica principale […] che non permette di utilizzare lo schwa, soprattutto perché viene percepito come estraneo, è la marca storica, diciamo, di un titolo.
Ovvero che se un titolo viene percepito da noi come antico e su qualcosa di storico,
[…] ecco, cosa succede?
Che noi, come cultura italiana, come lingua, a quei tempi non avevamo questo espediente
[…].
Questo è ciò che pensa Beatrice Ceruti, che dunque nutre più di qualche dubbio sui potenziali campi di applicazione dello scevà.

 

Certamente però non è l’unica opinione che possiamo trovare fra le persone che abbiamo raggiunto durante le scorse settimane. Come ci raccontava Kenobit e come vi abbiamo già riportato, per esempio, non è irreale che lo scevà si possa sposare bene con alcune ambientazioni che non siano smaccatamente futuristiche o contemporanee, com’era appunto il caso di Chicory.

A metà fra queste opinioni, abbiamo chi esprime pensieri come quello di Alice Buratto, che accetta che si abbia semplicemente la voglia di esprimere “un intento preciso, e allora l’uso dello schwa (con moderazione) non stonerebbe.

Alternative inclusive allo schwa

Con moderazione” dice Buratto in riferimento all’utilizzo dello scevà nella localizzazione italiana dei videogame, e già abbiamo avuto modo di sfiorare l’argomento in diversi punti di questa nostra riflessione.
E i motivi possono essere molteplici. Abbiamo per esempio una motivazione connessa all’evitare un appiattimento linguistico, un impigrimento della localizzazione, così da non rendere la lettura dei testi eccessivamente pesante.

Ma un altro problema potrebbe essere legato all’intrinseca difficoltà che potrebbero avere alcune persone di fronte a un simbolo come lo scevà.

Lo schwa: problemi di lettura

“[…] Bisogna ricordare che lo schwa non è particolarmente accessibile. […] Se si riesce a neutralizzare una traduzione che non necessita [dello schwa, n.d.r.], diciamo che insomma in cui non ci siano magari personaggi non binari, è effettivamente meglio.

Con queste parole, Beatrice Ceruti ha introdotto, durante la nostra intervista, un argomento particolarmente sensibile.
È infatti in corso, ormai da anni, un dibattito pubblico e accademico in merito all’utilizzo dello schwa, spesso vertendo (da parte di chi si oppone al suo utilizzo, in parte o del tutto) sul fatto che alcune persone avrebbero maggiori o eccessive difficoltà nel leggere questo simbolo.

Parliamo in questo caso apertamente di dislessia e neurodivergenza, il che ha portato in passato anche a citare questo elemento in una nota petizione (promossa dal professore linguista Massimo Arcangeli) che appunto si opponeva in maniera netta allo scevà, oltre che ad altre soluzioni simili come l’asterisco.
E mentre il dibattito continua di volta in volta a infiammarsi, per ora non abbiamo alcuna soluzione definitiva pozione magica che risolva a un contempo i problemi di inclusività e le rimostranze di taluni gruppi.

Tuttavia, nonostante le diatribe che lo scevà solleva per via della sua esistenza e del suo uso, ci sono molti altri strumenti, presenti nella nostra lingua, che ci consentono di creare un italiano più inclusivo.

Perifrasi, aggettivi in -e, espressioni neutre

“[…] Linguaggio inclusivo non vuol dire solo schwa.
Questa lapidaria frase di Kenobit Bortolotti riassume l’esistenza, nella lingua italiana, di tantissimi elementi che possiamo sfruttare per dare una forma più ampia e meno escludente alle nostre frasi, al nostro parlato, ai nostri scritti.

In merito a questo, fra le persone che abbiamo intervistato, abbiamo trovato una quasi totale unanimità in merito al ricorrere a “[…] soluzioni neutre e perifrasi“, come ci tiene a far presente Chiara Di Modica.

Dunque le perifrasi, i giri di parole, dei rimaneggiamenti alle nostre frasi, possono essere una validissima soluzione quasi sempre applicabile.
L’abbiamo usata anche noi scrivendo questi periodi. Avremmo potuto dire “i nostri intervistati“, ma abbiamo optato per “le persone che abbiamo intervistato“. Una piccola spesa in termini di parole, in cambio di una frase che non presenta connotazioni di genere.
Ma la stessa cosa l’abbiamo trovata citata nei racconti dei loro lavori da parte di Di Modica e Kenobit, come nel caso di quest’ultimo per la creazione di tutti quei testi che si rivolgono direttamente all’utente (come nel caso di menu di gioco).

Anche Beatrice Ceruti segue questa linea, esprimendo la sua preferenza nell’utilizzare, nel corso del suo lavoro, “[…] gli strumenti che ci ha dato la lingua italiana“.
La localizzatrice non cita soltanto le perifrasi, ma anche altre presenze fisse della nostra lingua, come gli aggettivi che finiscono in -e, anche sfruttando i sinonimi delle parole che dobbiamo tradurre in italiano.
Per esempio, se pensiamo a un aggettivo come “bravo“, potremmo sfruttare invece un termine come “capace“, non connotato né al maschile, né al femminile.

Nel caso si opti per questa scelta, Ceruti ci tiene però a metterci in guardia riguardo la sinonimia. Già da una lingua straniera alla sua traduzione italiana rischiamo infatti di perdere una sfumatura di significato, che può ulteriormente ampliarsi se cerchiamo un sinonimo di questa parola.

Anche Alice Buratto ha “[…] scoperto che mi trovo più comoda con le soluzioni alternative” allo scevà.
Se si lavora con l’italiano, credo che si debba arrivare a usare lo schwa solo dopo aver compreso molto bene la mentalità che c’è dietro alla proposta di questo suono alternativo e dopo aver acquisito una solida conoscenza della lingua italiana.
[…] Abbiamo (o dovremmo avere) gli strumenti per produrre testi non connotati da un punto di vista di genere, ma che siano anche leggibili e fruibili, e che facilitino l’esperienza di gioco.

In particolare, Buratto fa riferimento, fra le varie cose, allo “[…] schwa utilizzato alla stregua del maschile sovraesteso […]. Per esempio, viene anche usato in nomi o aggettivi ambigeneri o non declinabili. […] Il testo diventa abbastanza illeggibile.
Più specificamente, la traduttrice riprende un tema già approfondito precedentemente da Ceruti, ovvero la potenziale pigrizia nell’usare lo scevà rispetto ad altre soluzioni forse meno rapide, così da eliminare il problema e non pensarci più.

Variazioni sul tema: -u, troncamento, asterisco, -x e -y

Come che sia, poniamo il caso in cui non riusciamo a costruire i nostri testi sfruttando le caratteristiche intrinseche e fisse della lingua italiana. E poniamo pure che non vogliamo sfruttare lo schwa, per un qualunque motivo.
Cosa ci rimane da fare?

“[…] Per ora, non abbiamo ancora trovato neanche un’alternativa che sia, diciamo, naturale per la lingua italiana” ci ricorda Beatrice Ceruti.
Dunque, eccoci giusto a elencare alcune alternative contemporanee allo scevà. Si tratta unicamente di un elenco, anche perché non abbiamo spazio per approfondire ulteriormente.

Fra le proposte avanzate negli anni abbiamo il sostituire la vocale finale con -u. Tale proposta ha ricevuto diverse critiche per il fatto che la -u di fine parole, in diversi dialetti italiani, connota il maschile.
Un’altra alternativa è invece il chiudere i termini con -x o -y, ed è Kenobit stesso a rivelarci che quella della -x è una delle soluzioni che preferisce.

Proseguendo in questa nostra breve scaletta, possiamo citare il ben noto asterisco, a cui possiamo aggiungere anche la classica chiocciola @.
Infine abbiamo anche il semplice troncamento di sostantivi e aggettivi, ossia l’eliminazione della vocale o della sillaba finali di una parola.
Quali che siano le proposte che possono essere state avanzate nel corso del tempo e che vengono tutt’oggi portate avanti, vogliamo comunque riportare una chiosa di Kenobit: “non concentriamoci solo sullo schwa, ma sul concetto di linguaggio inclusivo, del quale lo schwa è solo uno degli strumenti“.

Un paio di conclusioni

Che si tratti di una delle possibilità appena adesso elencate, o che si tratti invece del protagonista di questo nostro articolo, in ogni caso (nella loro totalità) sono ben distanti dall’aver ottenuto il benché minimo riconoscimento unanime.

E certamente il dibattito, come abbiamo visto e come vediamo giornalmente, è ben vivo. Non solo fra chi vorrebbe lo scevà ovunque e chi invece vorrebbe bandirlo, ma pure fra chi maneggia quotidianamente la lingua italiana per restituirci videogame, e in generale opere, che rispecchino le intenzioni di chi li ha creati.
Non solo da un punto di vista di ambientazioni, lore, setting, trama, ma anche a livello di inclusività e rappresentazione.

In ogni caso, non mancheranno ulteriori developer, aziende, persone del settore, che opteranno per lo schwa o chissà quale altra soluzione all’interno dei loro videogiochi.
E certamente sarà interessante vedere come si evolverà la situazione e la localizzazione in italiano, e con loro la nostra stessa lingua e viceversa, in un rimando e in un intricato ma interessantissimo intreccio di diritti, inclusività, regole grammaticali e scelte stilistiche.

Per approfondire

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